martedì 25 dicembre 2007

Un babbo natale asiatico per Merrill Lynch

Deve essere proprio brutta la situazione dei conti di Merrill Lynch, forse la banca statunitense che sta maggiormente soffrendo per la crisi finanziaria in corso, una banca che ha già effettuato svalutazioni su titoli della finanza strutturata per enormi ammontari, licenziato uno degli uomini più potenti di Wall Street e assunto, non a caso, il numero uno del New York Stock Exchange, dando un'enorme buonuscita al primo ed un eccezionale assegno di ingaggio al forse un po' recalcitrante secondo.
Dicevo che deve essere proprio una brutta situazione, in quanto, alla vigilia di natale, Merrill ha annunciato che venderà Merrill Lynch Capital al colosso GE Capital, liberandosi di assett per 10 miliardi di dollari e di impegni per altri 5 miliardi, liberando così capitale per 1,3 miliardi di riallocare in altre attività, ma, non si era spenta l'eco di questa prima notizia che, dal quartiere generale di Merrill è giunta la seconda e più importante notizia legata all'arrivo di capitali da Temasek, l'ormai noto fondo governativo di Singapore, e da Davis Selected Advisors, un afflusso di ossigeno pari a 4,4 miliardi di dollari provenienti da Temasek (con un'opzione per altri 600 milioni) e di 1,2 miliardi da Davis.
L'ultrattivo fondo di Singapore ha già annunciato che al termine dell'operazione, che al momento si configura come un oneroso finanziamento a Merrill, giungerà ad una quota azionaria della disastrata banca statunitense non inferiore al 10 per cento del totale, quota che sfiorerebbe il 12 per cento se venisse opzionata anche la tranche di 600 milioni, mentre la quota azionaria di pertinenza di Davis Selected Advisors sarebbe di poco inferiore al 3 per cento.
Questa volta, però, il mercato ha dimostrato molta più lungimiranza di quanta sia stato possibile osservare nelle sedute passate e, come testimonia un un sensibile calo dell'azione passata l'iniziale euforia, sembra rendersi conto che le due mosse del nuovo numero uno di Merrill Lynch non lasciano presagire nulla di buono né nel breve termine, né tantomeno se l'orizzonte si sposta su tempi appena più lunghi, non fosse altro che per la nuova grana che sta scoppiando nel settore delle carte di credito, un settore che, solo per avere un'idea, pesa una volta e mezzo il tanto bistrattato comparto dei mutui subprime.
D'altra parte, come sostengo da giorni, non è pensabile che l'affluso, per quanto massiccio, di capitali provenienti dalla Cina, da Singapore, dai soliti paesi arabi possa risolvere il problema che continua ad essere rappresentato dalla persistente disaffezione degli investitori per i titoli della finanza strutturata, una disaffezione che difficilmente potrà scemare alla luce del vero e proprio bollettino di guerra che da mesi invade i mass media e che per molti altri mesi, al netto dell'informazione embedded, continuerà a gettare secchiate di acqua fredda sui tiepidi spiriti di coloro che sono già stati scottati troppe volte in passato.
Anche se è vero che, fatta la dovuta eccezione per la potente e preveggente Goldman Sachs, le azioni della maggior parte delle banche statunitensi quotano a livelli che sono mediamente del 40 per cento inferiori ai massimi toccati nella prima meta dell'anno, non vi è dubbio che le stesse, in questi mesi così critici per il settore e per le storie aziendali individuali, hanno mostrato livelli di supporto imprevedibili al punto da essere quasi sospetti, anche se uno studio molto accurato sui programmi di riacquisto di azioni proprie da parte della maggior parte delle corporations e delle banche statunitense qualche indizio rivelatore su questo apparentemente insolubile mistero lo fornisce.
Se questo fosse vero, e secondo lo studio vi sono buone ragioni che, almeno in parte, lo sia, ci troveremmo in una situazione che vede, allo stesso tempo, interventi stratosferici per garantire livelli alquanto modesti di liquidità nel mercato interbancario ma anche in quello creditizio alla clientela, accompagnati da interventi massicci sul fronte valutario a sostegno di un dollaro che appare destinato a testare livelli molto più bassi nei confronti delle principali valute, interventi, via buy back nel mercato azionario, mentre sembra proprio che nessuno sia in grado di agire sul versante obbligazionario in senso lato che rappresenta tuttora il bubbone realmente infetto di questa crisi.
E' quasi facile dire che l'iperattivismo delle banche centrali, dei fondi governativi asiatici ed arabi (è di pochi giorni fa la notizia della costituzione di un fondo governativo dell'Arabia Saudita di dimensioni senza precedenti), delle stesse aziende e banche a difesa delle proprie azioni rischiano di avere in tempi neanche troppo lunghi un effetto controproducente analogo a quello sperimentato nella grande crisi valutaria dei primi anni Novanta, quando, dopo aver quasi esaurito le riserve valutarie, la Gran Bretagna e l'Italia accettarono quei livelli di svalutazione delle rispettive valute sui quali Soros e compagni avevano scommesso, livelli che sarebbero stati di molto inferiori se quei governi non si fossero messi, in modo anche molto arrogante, contro vento.

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