Quando, alcune settimane orsono, il colosso creditizio europeo Hong Kong Shanghai Banking Corporation annunciò a sorpresa la decisione di riportare gli assett (45 miliardi di dollari) dei suoi numerosi SIV (Structured Investment Vehicles) nei propri bilanci, suonò la campana a morto sul decimato quartier generale di Citigroup, in quanto era a tutti evidente che la pretesa a lungo sostenuta da Charles Prince III, l’allora numero uno di Citi, di considerare quelli dei propri SIV come problemi estranei alla banca che li aveva originati non poteva reggere a lungo e, infatti, oggi la banca statunitense ha annunciato di aver deciso di riportare, con perdite, la montagna di titoli strutturati parcheggiati presso i suoi sette SIV da posizioni off balance sheet a poste dell’attivo (sic) del proprio bilancio.
L’approccio da leguleio dell’avvocato Prince è, peraltro, in larghissima parte quello che gli è costato il posto, in quanto nell’ormai noto meeting tra il potentissimo Weill, per oltre un decennio numero uno di Citi, ed il principe saudita Bin Al Wahaled, allora primo azionista della banca USA, avvenuto tempo fa nell’ipertecnologica tenda nel deserto di quest’ultimo, si stabilì non solo il licenziamento in tronco del Prince, ma anche che mai più un avvocato avrebbe ricoperto la carica di presidente ed amministratore delegato di Citigroup, promessa mantenuta con la nomina, avvenuta la scorsa settimana, dell’indiano Vikram Pandit come CEO di Citi e di un nobile inglese come presidente.
Come già avvenuto nel caso della HSBC, anche la transazione tra Citigroup e i suoi sette veicoli avviene evidenziando un alto livello iniziale di perdite, in quanto l’acquisizione di assett per 66 miliardi di dollari avviene dietro esborso effettivo di soli 49 miliardi, con una svalutazione implicita dei titoli acquisiti pari ad oltre il 26 per cento, mentre la banca inglese aveva contenuto la perdita di valore iniziale al 23 per cento circa, ma il vero valore delle svalutazioni emergerà, anche alla luce delle stringenti norme del FASB 157, solo quando la banca statunitense disporrà anche materialmente dei titoli.
Come è altrettanto ovvio, ora la campana suona per le altre banche statunitensi che si sono date da fare attivamente negli scorsi decenni a realizzare SIV e Conduit (così come lo stesso sta avvenendo per le banche globali europee che hanno fatto in questi anni le americane e per non poche banche asiatiche), essendo a tutti chiaro che, o con l’immissione diretta nei conti o mediante l’applicazione dei fondi di salvataggio che spuntano ormai come funghi, l’esternalizzazione dei rischi in direzione delle scatole off balance sheet o verso gli investitori istituzionali e/o i più o meno sprovveduti risparmiatori è da considerarsi, e per fortuna, un capitolo definitivamente chiuso.
Se a qualcuno è sembrato eccessivo o allarmistico il titolo di giovedì del mio blog, ”Allacciate le cinture di sicurezza!”, credo francamente che quanto sta avvenendo dopo la alquanto improvvida decisione dei banchieri centrali americani, britannici, canadesi, australiani e dei loro colleghi templari della BCE giustifichi appieno l’allarme contenuto nel titolo stesso, valutazione peraltro condivisa nei giorni successivi in numerosi commenti ed analisi apparse sulla stampa specializzata o meno e nel vasto mondo del web.
L’approccio da leguleio dell’avvocato Prince è, peraltro, in larghissima parte quello che gli è costato il posto, in quanto nell’ormai noto meeting tra il potentissimo Weill, per oltre un decennio numero uno di Citi, ed il principe saudita Bin Al Wahaled, allora primo azionista della banca USA, avvenuto tempo fa nell’ipertecnologica tenda nel deserto di quest’ultimo, si stabilì non solo il licenziamento in tronco del Prince, ma anche che mai più un avvocato avrebbe ricoperto la carica di presidente ed amministratore delegato di Citigroup, promessa mantenuta con la nomina, avvenuta la scorsa settimana, dell’indiano Vikram Pandit come CEO di Citi e di un nobile inglese come presidente.
Come già avvenuto nel caso della HSBC, anche la transazione tra Citigroup e i suoi sette veicoli avviene evidenziando un alto livello iniziale di perdite, in quanto l’acquisizione di assett per 66 miliardi di dollari avviene dietro esborso effettivo di soli 49 miliardi, con una svalutazione implicita dei titoli acquisiti pari ad oltre il 26 per cento, mentre la banca inglese aveva contenuto la perdita di valore iniziale al 23 per cento circa, ma il vero valore delle svalutazioni emergerà, anche alla luce delle stringenti norme del FASB 157, solo quando la banca statunitense disporrà anche materialmente dei titoli.
Come è altrettanto ovvio, ora la campana suona per le altre banche statunitensi che si sono date da fare attivamente negli scorsi decenni a realizzare SIV e Conduit (così come lo stesso sta avvenendo per le banche globali europee che hanno fatto in questi anni le americane e per non poche banche asiatiche), essendo a tutti chiaro che, o con l’immissione diretta nei conti o mediante l’applicazione dei fondi di salvataggio che spuntano ormai come funghi, l’esternalizzazione dei rischi in direzione delle scatole off balance sheet o verso gli investitori istituzionali e/o i più o meno sprovveduti risparmiatori è da considerarsi, e per fortuna, un capitolo definitivamente chiuso.
Se a qualcuno è sembrato eccessivo o allarmistico il titolo di giovedì del mio blog, ”Allacciate le cinture di sicurezza!”, credo francamente che quanto sta avvenendo dopo la alquanto improvvida decisione dei banchieri centrali americani, britannici, canadesi, australiani e dei loro colleghi templari della BCE giustifichi appieno l’allarme contenuto nel titolo stesso, valutazione peraltro condivisa nei giorni successivi in numerosi commenti ed analisi apparse sulla stampa specializzata o meno e nel vasto mondo del web.
Annunciare, come hanno fatto i nostri, un’azione massiccia e coordinata delle principali banche centrali del pianeta all’unico scopo di riportare manu militari un clima più sereno sul mercato interbancario statunitense, britannico ed europeo ha panicato la maggior parte degli già spaventati operatori del mercato finanziario globale, quegli stessi soggetti che di tutto sentivano il bisogno meno che i vigilatori del complesso sistema finanziario dessero fiato alle loro preoccupazioni in luogo di procedere, come da lunga e consolidata prassi, con azioni più o meno self explaining.
Non è un caso, peraltro, se, nelle sedute successive al proclama multilaterale dei banchieri centrali, le azioni che hanno maggiormente sofferto sono proprio quelle delle banche e delle altre entità finanziarie istituzionalmente sorvegliate e vigilate dagli spaventati esponenti della Federal Reserve, della BoE, della BCE, della Bank of Canada e della Bank of Australia, così come non è certamente un caso se dalla promessa azione congiunta in termini di liquidità, tassi e valute sono, ed è la prima volta da decenni, estranei ed esentati i banchieri centrali asiatici, inclusa quella non proprio trascurabile entità che è rappresentata dalla Bank of Japan, per non parlare poi di quel trascurabile accidente dato dal fatto che fanno capo a banche centrali, fondi governativi e governi dell’Asia un ammontare sterminato di titoli e depositi denominati in dollari, in larga parte originati dall’avanzo strutturale delle bilance commerciali di quegli stessi paesi.
Ma ancor più rivelatore è l’effetto quasi inesistente, che i massicci interventi già effettuati dopo l’annuncio, la moral suasion e la previsione degli ancor più massicci interventi futuri hanno originato una flessione sulle scadenze cruciali sul mercato interbancario compresa tra i 3 e gli 8 punti base, una flessione che non è nemmeno riuscita ad allontanare l’euribor ad un mese e a tre mesi, su base 365, dalla soglia psicologica del 5 per cento, soglia, peraltro, molto dolorosa per quella moltitudine di mutuatari dell’area euro, in particolare italiani, che hanno contratto mutui a tasso variabile quando il tasso fisso era ai minimi assoluti dal secondo dopoguerra.
Sarebbe poi comico, se non avesse aspetti tragici il primo outing sui conti del quarto trimestre e dell’intero 2007 avvenuto negli Stati Uniti e che ha visto come protagonista Lehman Brothers, quarta entità tra le Big Five statunitensi e con un grande peso nel terremotato settore del fixed income, la quale ha annunciato un sensibile calo degli utili nel quarto trimestre, ma, soprattutto, una flessione del 60 per cento dei ricavi in quel settore obbligazionario che è, appunto, il suo core business, ed una quasi totalità di presenza nei ridotti utili di voci estranee alla gestione caratteristica, il che ha determinato un orientamento pessimistico delle previsioni degli analisti per le prospettive 2008 della banca reso noto pressoché in contemporanea con la diffusione dei dati aziendali.
Se si pensa che Lehman Bros è considerata una sorta di boutique del credito, è evidente che i suoi 79 miliardi di dollari di esposizione nel disastrato settore della finanza strutturata rappresentano un problema da far tremare i polsi, almeno dell’attuale direttore finanziario della casa, in quanto il precedente, noto per la sua battuta di qualche mese fa sul fatto che il peggio era ormai alle spalle, era stato per questa esilarante performance licenziato su due piedi dai per nulla divertiti vertici aziendali.
Bisogna anche dire che il vero e proprio balzo in avanti dei prezzi al consumo in novembre negli Stati Uniti non aiuta, anche per l'inflazione effettiva viaggia ormai ad una velocità annua del 4,20 per cento, appena al di sotto del livello del tasso sui Fed Funds, tagliati pochi giorni fa al 4,25 per cento.
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