Non ho commentato nei giorni scorsi la notizia della crescita dei fallimenti personali negli Stati Uniti d’America, giunti nel 2010 a un milione e cinquecentotrentamila casi, un dato in crescita del 9 per cento su quello del 2009, un trend di crescita in netto calo se confrontato con quello evidenziato nei due anni precedenti (pari in entrambi i casi ad oltre il 30 per cento).
La bancarotta personale è un sistema che funziona molto bene negli States ed è generalmente richiesta dal diretto interessato che chiede al giudice la protezione nei confronti dei creditori, i quali ultimi, spesso, restano con un pugno di mosche in mano, anche se la persona non può, per un certo periodo di tempo utilizzare assegni o carte di credito, una condizione che in terra americana si presenta come molto difficile.
Il ricorso ai capitoli 11 o 13 della legge fallimentare statunitense da parte di individui e imprese ha suscitato un vivace dibattito avente ad oggetto il presunto lassismo delle norme che sembrerebbero troppo sbilanciate in favore del debitore rispetto ai creditori, una situazione, secondo i detrattori della legge, che favorirebbe un indebitamento anche sproporzionato alle entrate, tanto alla fine si corre sotto la protezione del giudice.
Ma una riforma in senso restrittivo è entrata in vigore nel 2005, tanto è vero che il 2004 ha visto un picco dei ricorsi al livello di quello toccato nel 2010, proprio perché i debitori hanno cercato di approfittare delle norme più permissive previste dalla precedente normativa, ma, si sa, alla parte conservatrice di quel paese gli irrigidimenti delle norma non bastano mai!
Un accurato servizio dell’Associated Press sui fallimenti sia personali che aziendali rende noto che nel 2010 questi sono stati pari a 1,55 milioni di casi, dal che si desume che solo 20 mila imprese hanno fatto ricorso alla protezione della legge, sbizzarrendosi poi in un’analisi particolareggiata del fenomeno a livello locale che risparmio ai lettori.