lunedì 1 settembre 2008

L'ira del Financial Times sul Cancelliere dello Scacchiere che ha detto tutta la verità sulla recessione in corso!


Non sono assolutamente in grado di dire se le fosche previsioni del Cancelliere dello Scacchiere britannico (l’equivalente del ministro dell’Economia di un paese meno amante delle anomalie quale è la Gran Bretagna), Alistair Darling o il pessimismo spinto che sembra animare il da poco confermato Governatore della Bank of England, Mervyn King, siano più o meno fondate, anche perché parlare dell’attuale come della peggior recessione verificatasi negli ultimi sessanta anni in Gran Bretagna suona in molto diverso che se fosse stata fatta dai loro omologhi degli altri principali paesi membri dell’Unione Europea.

Non vi è, infatti, suddito di Sua Maestà britannica che non ricordi il pessimo precedente verificatosi negli anni Ottanta, quando l’economia registrò una contrazione del 3 per cento nei sei mesi peggiori della crisi di allora, mentre, come ricordava ieri il Financial Times, venivano persi posto di lavoro al ritmo di 100 mila persone al mese, uno scenario certamente inquietante e che aprì la strada a quella deindustrializzazione spinta dell’economia britannica che contribuì a far vincere a George Soros pochi anni dopo la sua scommessa su una più che possibile svalutazione della sterlina, cui aggiunse per soprammercato quella altrettanto fortunata contro la lira italiana.

Poi la scoperta del petrolio nel mare del Nord e l’avvento di Mrs. Margaret Thatcher consentirono una sorta di nuovo miracolo economico, la pressoché totale privatizzazione dei serizi un tempo pubblici, giacché di grandi industrie non ve ne erano oramai più né pubbliche, né tanto meno private (le poche rimaste sono di fatto tutte in mani straniere), mentre, grazie al big bang finanziario, la piazza di Londra conobbe uno sviluppo di dimensioni colossali che favorì la temporanea illusione che si potesse fare come in Lussemburgo o in Svizzera, paesi nei quali l’industria principale è quella dei servizi finanziari in senso lato, cosa poi non del tutto vera nel caso della Confederazione elvetica che mantiene forti presenze nella chimica pesante ed in quella fine, nella farmaceutica, nella meccanica di precisione e che, comunque, annovera poco più di un decimo degli abitanti di quanti ne conti la Svizzera.

Il vero erede di Mrs Thatcher, Tony Blair ha provveduto a colmare i pochi pezzi del processo di finanziarizzazione spinta e deindustrializzazione mancanti nel progetto dell’ormai anziana dama di ferro, innescando un boom immobile, causa ed allo stesso effetto di una vera e propria corsa all’indebitamento delle famiglie e dei single, una crescita notevole dell’occupazione legata ad una estrema liberalizzazione del mercato del lavoro, assolutamente non contrastata da quelle un tempo fortissime Trade Unions troppo fiaccate dalla indomabile inquilina di Downing Street per non gettarsi felici nelle braccia della sua controfigura maschile (si pensi soltanto che, in due, hanno assommato sei mandati ed entrambi sono stati pugnalati alle spalle dai loro poco fedeli compagni di partito!).

Non si può certo dire che il battesimo del fuoco della scorsa estate di Darling, che aveva da poco preso il posto lasciato vacante da un Gordon Brown finalmente riuscito nel suo perenne tentativo di fare le scarpe a Tony Blair, sia stato brillante, in quanto, in unione con King e con il capo dell’FSE, gestirono veramente in modo dilettantesco la vicenda della Northern Rock, prima rifiutandole qualsiasi supporto e quasi provocando quell’assalto agli sportelli che rappresentava un inedito per quella nazione da almeno 166 anni, per poi esibirsi in un salvataggio davvero a piè di lista prima di ogni obbligazione della banca nei confronti dei depositanti e del mondo intero e, fallita un’interminabile asta che aveva visto i più improbabili pretendenti, decidersi per la nazionalizzazione “temporanea” e quindi certamente perpetua della ottava banca dell’United Kingdom.

Non è la prima volta che mi trovo a sottolineare che, almeno sino ad oggi, nessuna delle banche entrate in crisi al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico sia riuscita a trovare dei compratori, un dato di fatto incontestabile, in quanto, a parte il salvataggio totalmente garantito dalla Federal riserve dell’orso di Stearns da parte della banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e del capostipite della casta dei Rockfeller (la Fed ci ha messo 30 miliardi di dollari di finanziamento a totale carico dei contribuenti, mentre loro, dopo un lungo tira e molla e la minaccia di azioni legali da parte degli infuriati azionisti di Bear Stearns, si sono decisi a tirarne fuori un miliardo, dicasi un miliardo), e la finalmente felice conclusione dell’annoso tentativo di accasamento della prima delle due banche tedesche a dichiarare default, tutte le altre rimangono in un penoso ed u n po’ angosciante stand by o, per ora nove nei soli Stati Uniti d’America, sono miseramente fallite, mentre la Federal Deposit Insurance Corporation segnala di aver portato a 127 il numero delle banche statunitensi a rischio.

Ma quale è la particolarità britannica che accomuna questo Paese più al rovinoso scenario statunitense che a quello dei maggiori paesi dell’Europa continentale? Sarebbe troppo semplice rispondere che simul stabunt simul cadent, accomunando le disgrazie britanniche a quelle statunitensi, il che è peraltro certamente vero, ma rischia di cogliere solo un aspetto della realtà, quello legato alla finanziarizzazione di tutto quello che poteva essere finanziato che ha accomunato le due più grandi nazioni di lingua anglosassone, mentre la differenza rimane quella legata all’economia reale, sia manifatturiera che agricola, che negli Stati Uniti d’America permane a livelli di assoluta eccellenza, mentre in Gran Bretagna, di fatto almeno, è ridotta, come si diceva, ai minimi termini.

Molto rilevante è poi la differenza in termini di politica monetaria seguita dalle rispettive banche centrali, in quanto, anche perché scottatasi con la Northern Rock, la Bank of England non se l’è proprio sentita di seguire Bernspan nella sua frenesia tagliatrice dei tassi di riferimento che lo ha portato a determinare tassi di interesse largamente negativi, dal che ne discende un differenziale di tre punti pieni tra i Fed Fund ed il tasso di intervento della BoE; così come molto diversa è la struttura dell’industria finanziaria, che è sì concentrata in entrambi i paesi su un numero ristretto di grandissimi soggetti bancari, contorniati però da migliaia di comprimari negli USA e da poche centinaia in Gran Bretagna, così come, a parte le divisioni di Corporate & Investment Banking delle tre maggiori banche basate Oltremanica, non esistono più Investment Banks degne di tale nome, il che non ha impedito alle banche britanniche di detenere montagne di titoli della finanza strutturata che non hanno niente da invidiare a quelle che affligono le consorelle a stelle e strisce.

E’ divertente che il Financial Times, storico ed acerrimo nemico di tutto quello che inizia con il prefisso euro e fiero avversario di qualsivoglia progetto di maggiore coesione politica e militare dell’Unione Europea, faccia di tutto per smentire le affermazioni del Cancelliere dello Scacchiere e del Governatore della BoE, quasi temesse che possa venire il dubbio ai suoi concittadini che forse lo scudo dell’euro li avrebbe maggiormente protetti dallo sfacelo economico attuale!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.