Sotto la pressione montante di una pressione popolare assolutamente senza precedenti, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America ha clamorosamente bocciato il faticoso compromesso che aveva preso il posto del piano di salvataggio di Hank Paulson, un piano giudicato senza appello come un salvataggio senza precedenti lanciato in direzione dei naufraghi di Wall Street, in particolare delle maggiori entità finanziarie sopravvissute agli alti marosi della tempesta perfetta, un salvataggio che dal profondo del Paese, sino alle downtown delle principali metropoli gli americani hanno visto come l’estremo tentativo di salvare i banchieri, senza tenere conto dei loro errori e del moral hazard che ha caratterizzato molti dei loro comportamenti.
In una drammatico voto che ha visto i no prevalere per 23 voti sui sì (228 a 205), con una aperta ribellione dei repubblicani nei confronti del “loro” presidente in carica, George W. Bush, e del “loro” ministro del Tesoro, l’ex (?) investment banker, Hank Paulson, che ha visto due terzi dei deputati del Great Old Party votare no, ma anche il 40 per cento dei democratici fare la stessa scelta, seppure molto probabilmente per motivi diametralmente opposti, i rappresentanti del popolo non se la sono sentita di ignorare l’opinione di quelle donne e di quegli uomini che hanno espresso a gran voce il loro rifiuto del piano a voce, via internet e con ogni altro mezzo a loro disposizione, anche perché è proprio a quelle cittadine ed a quei cittadini che si apprestano a chiedere il voto tra cinque settimane.
Che le cose non si stessero mettendo bene per l’amministrazione Bush e per il duo forse più odiato del momento, quello formato da Paulson e da Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, lo si era capito sin dallo show fallito di venerdì della scorsa settimana che pure avrebbe avuto la ridente scenografia del giardino della Casa Bianca, ma ancor più nelle due giornate successive, ancora una volta strappate al giusto riposo da quella stessa tempesta perfetta che ha reso lavorativi tutti i giorni dei banchieri, degli assicuratori, dei membri del governo e di un vero e proprio stuolo di giornalisti al seguito, nelle quali si alternavano improvvisi entusiasmi ed accordi che non c’era il tempo di essere scritti nero su bianco ed improvvise secchiate di acqua gelide provenienti da deputati e senatori di entrambi gli schieramenti che avevano perfettamente capito che i desideri dell’establishment e quelli della popolazione andavano in direzioni diametralmente opposta e che, se non si voleva acuire il solco profondo esistente tra gli americani ed i loro rappresentanti in quel di Washington, era del tutto necessario prendere il coraggio a due mani e saltare il fosso, almeno per evitare di finirvi dentro!
Una volta tanto, analisti ed operatori avevano capito tutto sin dalle prime battute delle contrattazioni in Asia, anche perché dalle due sponde dell’Atlantico giungevano notizie drammatiche ed altrettante soluzioni d’emergenza maturate sempre nello stesso lunghissimo week end, con Wachovia Bank, la quarta banca commerciale statunitense, salvata in extremis ed un po’ con la pistola alla tempia da Citigroup, che si è dovuta fare carico del suo attivo e, soprattutto, del suo passivo, mentre l’altra sopravvissuta delle un tempo Big Five dell’investment banking a stelle e strisce, Morgan Stanley, cedeva il 21 per cento del suo pacchetto azionario ai giapponesi di Mituhbishi, ma, al contempo, il colosso europeo Fortis veniva di fatto nazionalizzato dai tre governi del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo, mentre il numero uno dell’immobiliare tedesco, ma con forti interessi anche oltreconfine, Hypo Real Estate, era costretto a ricevere le amorevoli cure del governo tedesco.
Alle tutto sommato contenute flessioni dei listini asiatici, è seguita la grandinata di vendite sui mercati azionari europei, vendite massicce su tutti i titoli del comparto finanziario non effettuate dagli odiati ribassisti, ma bensì da azionisti in carne ed ossa in preda ad un chiaro effetto panico, che provocava, a solo titolo di esempio, la sospensione per eccesso di ribasso di Unicredit Group, che ha vissuto l’onta del crollo del forte supporto posto a 3 euro, ma che quotava, poco più di dodici mesi orsono, la bellezza di 7,75 euro, ma cali vistosissimi hanno riguardato più o meno tutte le grandi banche del vecchio continente, proprio mentre i banchieri centrali correvano alla riunione d’emergenza del Financial Stability Forum indetta in tempo reale dal suo presidente, il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi.
Ma il vero disastro giungeva in contemporanea con l’annuncio in diretta della clamorosa bocciatura da parte dei deputati del piano di salvataggio, con il Dow Jones che andava giù in picchiata libera di 650 punti, ma che già ne perdeva parecchi sin dalle prima battute, surclassato in peggio dal Nasdaq e dallo Standard & Poor’s 500, che anticipavano quello che si sarebbe poi verificato in chiusura, ad onta della disattivazione tempestiva dei sistemi automatici di contrattazione e di tutti gli altri correttivi adottati dopo il crollo del 1987.
Al termine di quella che verrà ricordata come una delle più drammatiche sedute vissute nella lunga storia di Wall Street, il Dow Jones ha perso 770,59 punti, con una flessione percentuale del 6,92 per cento, il Nasdaq è andato giù di 199,61 punti, lasciando così sul terreno il 9,14 per cento, mentre il più ampio S&P 500, che ha rotto nell’intraday anche l’importantissima soglia psicologica dei 1.100 punti, ha chiuso appena sopra tale livello, perdendo 105,95 punti che corrispondono ad una flessione dell’(8,73 per cento), mentre, alquanto ovviamente, gli yields dei Treasury Bonds sono tracollati di 20 punti base circa con la gente che se li strappava dalle mani e ne spingeva il prezzo prepotentemente verso l’alto, così come, altrettanto inevitabilmente, il prezzo del greggio crollava di dieci dollari al barile.
Come i miei lettori ben sanno, ho sempre detto che la tempesta perfetta era molto più visibile sul mercato interbancario che sugli indici borsistici, ma questa sesta e non definitiva ondata ha letteralmente rotto gli argini e mandato le imbarcazioni di ogni dimensione ad infrangersi sul molo, circostanza che fa inevitabilmente perdere i punti di riferimento, una situazione aggravata dal fatto che, come ha efficacemente ricordato Hank Paulson e diligentemente ripetuto Bush nel suo drammatico appello televisivo alla nazione nell’ora di maggiore ascolto, il mercato interbancario è di fatto del tutto congelato, al punto che l’Euribor ed i Libor sulle diverse valute esprimono poco più che dei valori teorici che poco hanno a che fare con i tassi richiesti ed offerti su quei rivoli di liquidità che ancora vengono scambiati tra le diverse banche che, nonostante i disperati appelli dei banchieri centrali, continuano ostinatamente e, almeno in base a quanto registrano le cronache, alquanto ragionevolmente a non fidarsi l’una dell’altra e, verrebbe proprio da dire, neanche di sé stesse!
Non so quale altro cilindro il mitico Hank tirerà questa volta fuori dal suo inesauribile cilindro, ma credo che, almeno per stavolta, valga per lui il suggerimento che tante volte avrà rivolto a qualche suo collaboratore: the sooner you leave, the better!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.