Il micidiale uno due proveniente dal mercato del lavoro, con il balzo in avanti dei jobless claims settimanali e la conferma che non si riesce proprio ad abbattere verso il basso la soglia psicologica dei 400 mila nuovi sussidi ogni sette giorni e la pessima anticipazione del Non Farm Payrolls relativo al mese di agosto proveniente dalla rilevazione relativa al solo settore privato che ha visto l’eliminazione di altre 33 mila buste paga, non è che lo specchio della catastrofe dei dati sulle vendite di auto, che hanno visto la Ford sfiorare un calo delle vetture “piazzate” del 30 per cento circa, un crollo peraltro non dissimile da quello che si è registrato in Italia.
D’altra parte, sempre parlando di un tema delicato come quello dell’occupazione, non ha destato particolare stupore, almeno tra gli addetti ai lavori, la falcidia di posti direttamente legati alle banche di investimenti e di quelle commerciali che, dall’inizio della tempesta perfetta hanno messo alla porta 112 mila persone, che, ovviamente diventano tante di più se si includono anche le altre principali componenti del mercato finanziario statunitense e di quello globale, una falcidia che ha visto cadere per prime quella pletora di finanziarie operanti nel mortgage che pressoché in blocco si sono rifugiate tra luglio ed agosto dello scorso anno sotto la protezione offerta dai vari articoli di cui si compone la legge fallimentare statunitense.
Tenuta per settimane su con gli stecchini, wall Street non ha potuto fare a meno di accusare questa gragnola di colpi e ne ha risentito in modo particolare il comparto finanziario che pure aveva cercato, ed in parte era riuscito, ad allontanarsi dai minimi toccati prima che entrasse in vigore le norme provvisorie imposte da Effe O Ixs che hanno impedito per poco meno di un mese di operare vendite allo scoperto delle azioni di diciannove tra le principali entità operanti nel mercato finanziario statunitense, banche di investimento e banche più o meno globali, statunitensi e straniere, incluse quelle due mega entità semipubbliche che rispondono al nome di Fannie Mae e Freddie Mac, per le quali non è giunto, se mai un giorno giungerà, il momento giusto per un salvataggio a spese dei contribuenti e che devono, nel mese in corso, trovare il modo di rimpiazzare la bellezza di 225 miliardi di dollari di GSE in scadenza.
Per molte delle banche sotto tiro, le flessioni registrate dalle rispettive quotazioni hanno riportato alla memoria quelle registrate prima della metà di luglio, ma quello che colpisce di più è il tracollo delle quotazioni dell’azione di Lehman Brothers che contrastano con le continue illazioni sulla quota azionaria (c’è chi dice il 25 chi il 50 per cento) che potrebbe essere finalmente acquistata da quello strano cavaliere bianco rappresentato dalla Korean Development Bank, al momento l’unica a non essere scappata a gambe levate di fronte alla visione dei veri conti che Richard Flud renderà pubblici in data non meglio precisata, ma che indicano indubitabilmente la sua ferma decisione di non procedere a svalutazioni drastiche quali quelle effettuate dal nuovo capo di Merrill Lynch non più tardi di qualche settimana orsono e che rappresentano un ben triste benchmark per chi si trova ancora decine se non centinaia di miliardi di dollari, di valore facciale si intende, di qui titoli della finanza strutturata attualmente accettati come buoni soltanto nell’ampia discarica a cielo aperto gestita dalle donne e dagli uomini della Fed di New York.
M a soffrire, anche per i motivi citati all’inizio di questa puntata, sono un poì tutti i comparti presenti nei tre listini principali della borsa di New York, anche perché ieri è stata ampia eco alla nefasta previsione di un accreditato economista che prevede un crollo delle quotazioni delle case in linea, se non addirittura peggiore, di quella verificatasi nel corso di quel periodo nefasto da molti rimosso e che prese il nome di Grande Depressione, che, lo ricordo ai più distratti, non fu lasciata alle spalle se non dopo oltre quattordici anni di terapie più o meno intensive e che fu superata più grazie all’effetto dello sforzo bellico successivo a Pearl Harbour che per gli effetti positivi del coraggioso e quasi visionario per l’epoca New Deal di Roosvelt.
Il problema vero è dato dal fatto che la tempesta perfetta si inserisce in uno scenario che già vede gli Stati Uniti d’America impegnati su più e molto dispendiosi fronti bellici e che la spesa pubblica federale e quella sostenuta dalla miriade di entità decentrate che governano gli stati, le contee ed i municipi da una costa all’altra di quella che è ancora la nazione che, individualmente considerata, resta pur sempre la più grande economia del pianeta, ma che presenta, al contempo, gli squilibri strutturali, in particolare nei conti con l’estero, incomparabilmente più gravi di quelle che caratterizzano le nazioni rappresentate all’ONU.
Il micidiale intreccio che sta sempre più caratterizzando l’economia reale, fatta pur sempre di occupazione, reddito ed investimenti e quella che oramai pare un vero e proprio eufemismo definire soltanto come la più grave crisi finanziaria dal secondo dopoguerra mondiale determina un problema che, almeno al momento appare ai più senza soluzione, anche per il semplice motivo che nessuno è sinora riuscito ad indicare il prestatore di ultima istanza in grado di farsi carico di un’eventuale quanto improbabile soluzione del problema rappresentato da una montagna di titoli della finanza strutturata che ammonta pur sempre a qualcosa come 75 mila miliardi di dollari, per non parlare del micidiale effetto domino innescato dalla perdita dell’abitazione, del lavoro e, per i più sfortunati tra gli americani, di entrambi.
Come ho avuto modo di sottolineare più volte, gli sforzi immani compiuti dai regolatori, dal Governo e da nugoli di volenterosi dai portafogli, tuttavia, ermeticamente chiusi, non sembrano fornire uno straccio di soluzione al dilemma che sta rendendo insonni le notti di chi è in grado di farsi un’idea sufficientemente chiara delle dimensioni veramente immani del problema, così come appare altrettanto chiaro che anche le più fervide menti dei decision makers statunitensi riesce ad indicare ai politici di entrambi gli schieramenti una soluzione che sia ed appaia come risolutiva e non susciti i veti incrociati che caratterizzano ogni elezione presidenziale, figuriamoci una tenzone all’ultimo sangue quale quella che si prefigura tra il democratico Obama ed il repubblicano Mc Cain.
Dispiace che tanti investitori istituzionali, già vittime sacrificali dei sofisticati prodotti escogitati dagli apprendisti stregoni delle Investment banks e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, si siano gettati a capofitto nelle azzardate scommesse sulle commodities, in particolare su quelle sul valore futuro del greggio, anche perché ero stato facile profeta nel prevedere che, realizzati i livelli previsti, quelle vecchie volpi dei traders di Goldman Sachs e quelli operanti per le maggiori tra le entità che operano su questi mercati avrebbero più o meno bruscamente girato le posizioni, lasciando tutti gli altri con il classico cerino acceso in mano.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.