Vi è una molto sinistra assonanza tra lo sgretolamento del castello di carte messo in piedi dalle Investment Banks, le banche più o meno globali, le divisioni finanza dei giganti del comparto assicurativo ed altri importanti protagonisti del mercato finanziario globale ed il tragico accartocciamento delle torri gemelle bombardate da aerei di linea pieni di passeggeri innocenti verificatosi l’11 settembre del 2001, il giorno che resterà impresso nella Storia come quello in cui avvenne il primo attacco a quello che, almeno nell’immaginario collettivo, era ed è il cuore pulsante degli Stati Uniti d’America, la nazione che, dopo l’implosione dell’impero sovietico, resta indubitabilmente l’unica superpotenza del pianeta, anche se non va sottovalutata l’ansia di protagonismo del nuovo Zar di tutte le Russie, Vladimir Putin, un uomo il cui avvento al potere fu salutato dall’Occidente come assolutamente necessario, ma che oggi si dimostra sempre più impaziente di riportare la sua “Madre Russia” a quel rango di superpotenza perso 20 anni orsono.
Nella sua lunga conferenza stampa, Hank Paulson ha fatto la maggiore autocritica che un grande investment banker, seppur oggi “prestato” alla politica nel delicato ed importante ruolo di responsabile del dicastero del Tesoro USA, abbia mai fatto, un discorso nel quale, tra le righe, si leggeva una paura tremenda per il meltdown del mondo nel quale è cresciuto ed ha creduto, non fosse altro che ha percorso i vari gradini della sua scalata al potere nella più grande istituzione finanziaria del mondo, la molto potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs, proprio negli anni in cui le pratiche sempre più disinvolte dei banchieri di investimento e di quelli cosiddetti universali andavano montando.
Già, uomini come Hank, come Robert Rubin (un altro Goldman “prestato” allo stesso incarico sotto la prima presidenza di Bill Clinton), come John Thain (“prestato” da Goldman prima al New York Stock Exchange e divenuto poi il “curatore fallimentare” che ha consentito a Merrill Lynch di approdare nelle forti braccia di Bank of America), Robert Steel (“prestato” da Goldman prima al Governo, come uno dei vice di Hank e poi chiamato a salvare dal dissesto una delle quattro maggiori banche commerciali), come Mario Draghi (da Direttore Generale del Tesoro italiano a capo europeo di Goldman e membro dell’esecutivo a livello globale e poi “prestato” come Governatore della Banca d’Italia) e mi fermo qui perché la lista degli entrati ed usciti dalla porta girevole di Goldman è davvero infinito ed assolutamente bipartisan; ebbene uomini come questi non sono dei passanti della crisi finanziaria più grave dal secondo dopoguerra e forse da sempre, bensì assoluti protagonisti, anche se a volte da dietro le quinte, di quei disastri che prendono il nome di deregolamentazione, globalizzazione e finanziarizzazione, tutti basati su quel tragico equivoco che il mercato, finanziario o meno non fa assolutamente differenza, lasciato a sé stesso agirà per il bene collettivo!
Sono questi uomini e tanti altri come loro i topi posti a guardia del formaggio di cui parla l’antipatico ma sincero tre volte ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, che con Lombard, Angelo De Mattia e, perdonate l’autocitazione, il sottoscritto, ha animato negli anni Ottanta le pagine economiche del quotidiano Il Manifesto, sotto l’accorta regia di Valentino Parlato e di Roberto Tesi, in arte Galapagos, contribuendo a svelare alcuni arcani e molte patacche del potere economico italiano, un capitalismo forse un po’ familistico e molto straccione e che deve molto, forse tutto, all’infinita generosità di un “potere” politico che non ha mai negato nulla a chi avesse il buon gusto, ex ante o ex post, di sdebitarsi adeguatamente nei confronti del padrino di turno, una critica dell’economia dominante nel nostro Paese che trovò adeguato riscontro in quel breve squarcio di verità rappresentato da Mani Pulite, anche detta Tangentopoli, l’inchiesta dei vari Borrelli, Davigo, Di Pietro, Greco ed altri valenti magistrati cui poi fu messa rapidamente la museruola.
Ma, tornando al topo Paulson, venivano quasi le lacrime al vostro cronista della tempesta perfetta, sentendo affermare da uno dei maggiori investment banker globali ripetere la giaculatorie sulle cause da scoprire, le responsabilità da individuare, regole ferree da introdurre, chiarendo, però, subito che tutto questo riguarda il domani, mentre oggi è necessario salvare il salvabile, prima che anche Goldman Sachs e Morgan Stanley facciano miseramente la fine delle altre appartenenti al gruppo delle un tempo magiche Big Five, per non parlare delle migliaia di banche statunitensi di ogni dimensione che rischiano, alcune comunque lo faranno, di fallire, delle quattro immense banche commerciali che poi, in realtà sono universali, delle compagnie di assicurazione che si erano gettate a capofitto nelle garanzie ai titoli della finanza strutturata, più o meno tossici, dei fondi pensione, dei fondi di investimento, degli hedge funds, dei carry traders e scusate se ne ho dimenticato qualcuno.
Come ha ben detto con la sagacia dello gnomo svizzero Ackermann “prestato” alla multinazionale tedesca Deutsche Bank (che si è appena mangiata Deutsche Postbank), il problema non è il restyling del MLEC o la mega dotazione da 700 miliardi di dollari richiesta al Congresso, il problema vero è, come era ai tempi della prima pensata di Hank, quello dei meccanismi competitivi e trasparenti (asta?) da mettere in piedi affinché il prezzo pagato non rappresenti il solito regalo alle banche di ogni ordine, specie e grado, ma si avvicini quanto più possibile a quel mark to market che sarà pur difficile da stimare alla luce della il liquidità dei sottostanti, ma che è stato in qualche modo fissato da quei 22 centesimi per dollaro incassati da John Thain da un unico compratore peraltro da lui generosamente finanziato e a cui ha dovuto a denti strettissimi concedere una clausola di riacquisto, seppur escutibile solo a certe condizioni che al momento sembravano irrealizzabili, ma che potrebbero divenire realistiche se questo gigantesco piano, come il precedente, dovesse fallire clamorosamente!
Economisti molto più saggi e preparati di me hanno provato a stimare le conseguenze del piano di Hank sulle banche statunitensi (un esercizio ovviamente fatto sulla base delle poche informazioni al momento disponibili e prima delle modifiche che i democratici chiedono a gran voce per dare il loro indispensabile via libera), stime peraltro basate su un prezzo di 50 centesimi per dollaro che potrebbe essere realistico solo le banche agiranno in modo oligopolistico e nessuna di loro si farà, invece, prendere dal panico, e giungono alla facile conclusione che solo le grandi e grandissime entità potranno sopravvivere al salasso in termini di perdite contabilizzate, mentre per la maggior parte delle 7.200 banche statunitensi con questa operazione verità si aprirebbe in tempi più o meno rapidi uno scenario tale da portarle dritte, dritte a chiedere la protezione della accomodante legge fallimentare statunitense.
L’impatto sui già terremotati deficit e debito pubblico statunitensi richiederebbero maggiori informazioni sui dettagli del piano e, soprattutto, sulla sua effettiva applicazione, ma si può comunque pensare che, senza consolidare i GSE di Fannie e Freddie, nella migliore delle ipotesi si arriverà a 700-800 miliardi di dollari per il deficit 2009 e a 12 mila miliardi di stock del debito, con buona pace dei programmi di spesa promessi da Mc Cain e da Obama nei loro comizi!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.