domenica 28 settembre 2008

Bye bye, Wachovia Bank!


Come si usa dire spesso nel gergo sportivo, quando il gioco si fa duro i duri entrano in campo, frase molto cara ad un apparentemente mite italiano sinceramente innamorato dell’America, l’ex presidente del consiglio, ex ministro del Tesoro ed ex direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini, uno che ad un impertinente giornalista che lo bersagliava dalle colonne del Financial Times ebbe a dire dalla scrivania che appartenne a Quintino Sella e senza, dicono, cambiare espressione, “the sooner you leave, the better”!

Che il gioco si stia facendo tremendamente duro e senza a esclusione di colpi è, peraltro, oramai chiaro a tutti, incluse quelle legioni di analisti, commentatori e giornalisti embedded alle logiche ed ai desideri di Big Finance che fino a pochi giorni fa ripetevano di avere visto la luce alla fine del tunnel, nonostante fossimo, purtroppo, tutti immersi in un buio pesto, persone a cui milioni di risparmiatori/investitori devono le ingenti perdite dovute alla spesso istantanea polverizzazione delle azioni di entità finanziarie altrettanto spesso svanite nel giro di pochi giorni, se non di poche ore.

Ma si tratta anche di persone capacissime di comprendere alla velocità della luce che il nuovo mantra di Big Finance è drammatizzare, spaventare, tutto pur di convincere quei quattro cialtroni che hanno generosamente contribuito a far sì che conquistassero scranni al Senato o alla Camera dei Rappresentanti ad approvare a spron battuto il piano di salvataggio e che questo assomigli quanto più possibile alla versione originaria e molto generosa partorita dalla fervida mente dell’ex (?) collega Hank Paulson, un uomo che, non va mai dimenticato ha rinunciato ad uno stipendi da cento milioni di dollari cento, per sobbarcarsi la fatica di traghettare la sua e le altre banche fuori da quella tempesta perfetta che a lui ed ai più avvertiti tra gli investment bankers e i banchieri più o meno globali appariva del tutto inevitabile almeno due anni prima di quel 9 agosto del 2007 in cui ce ne siamo dovuti accorgere anche noi, ma che si è verificato almeno un anno prima di quanto loro prevedevano, vanificando tutti gli sforzi di deleverage selvaggio compiuti sin dall’autunno del 2006 da Goldman Sachs, UBS, Lehman Brothers, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Citigroup e compagnia cantante!

A far lievitare le ansie e le paure degli investitori/risparmiatori così a lungo ingannati, è giunto il vero e proprio tracollo di Wachovia Bank, che, lo ricordo ogni volta, non è una banca polacca, ma bensì la quarta banca commerciale degli Stati Uniti d’America, scivolata venerdì in chiusura all’infimo prezzo di 10 dollari, ma ha toccato gli 8,5 dollari in un frenetico after hours, segnando un calo del 38 per cento rispetto alla già molto depressa quotazione segnata alla chiusura delle contrattazioni di giovedì, ed a nulla sono servite le quasi esplicite dichiarazioni fatte filtrare dai suoi terrorizzati vertici circa colloqui con il colosso Citigroup finalizzati ad un salvataggio in extremis che non si sa quanto entusiasmi il giovane Chief Executive Officer di Citi, Vikram Pandit, che di guai ne ha già abbastanza dei suoi grazie alle pesanti eredità delle gestioni di Chuck Prince III e del mentore di questi Weill, il vero responsabile del disastro, senza doversi caricare degli errori commessi da altri banchieri avventurosi.

Accennavo nella puntata di sabato al rapidissimo processo di concentrazione che sta avvenendo in vetta al sistema bancario statunitense, ma è certo che un eventuale acquisizione della quarta banca commerciale da parte della ex prima, ridarebbe a Citigroup una primazia assoluta, anche se non so quanto desiderata, anche perché c’è ancora da sistemare Morgan Stanley, che a sua volta rappresenta il più grande punto interrogativo nell’oramai scomparso settore dell’investment banking a stelle e strisce.

Noto con piacere che anche autorevolissimi commentatori d’oltreoceano stanno iniziando ad interrogarsi sull’opportunità della candidatura di John Mc Cain, anche perché lo spettacolo che sta offrendo in questi giorni lo confermano nella sua immagine di politico talmente poco affidabile da decidere, nel giorno della riappacificazione nazionale con tanto di set allestito nel giardino della Casa Bianca, di mettersi alla guida dei repubblicani ribelli nei confronti del presidente, del ministro del Tesoro e del presidente della Federal Reserve, sperando forse così in una captatio benevolentiae riferita a quel vasto ed articolato movimento di opinione che non è sceso in piazza, ma si è letteralmente scatenato sulla nuova agorà del terzo millennio, internet, con una catena virtuale senza precedenti di bloggers, lettori infuriati e cittadini senza volto che dichiarano di non riconoscersi più né nell’asinello, né tantomeno in quell’elefante impazzito in un negozio di cristalli che è oramai divenuto il partito repubblicano.

Sarei proprio curioso di sapere cosa pensa di tutto questo l’attuale vice presidente, Dick Cheney, anche se so della sua monomaniacale predilezione per la guerra e gli affari ad essa connessi , una curiosità connessa al fatto che, forse per mia disattenzione, non ho letto alcuna sua dichiarazione sulla tempesta perfetta, né sulla inaudita rivolta della maggior parte dei congressisti facenti riferimento al suo partito, per non parlare della non secondaria circostanza che conserva, per diritto costituzionale, il diritto di voto nel Senato degli Stati Uniti d’America, anche perché non vorrei credere nei rumors e nei gossip che lo vorrebbero come il vero regista della sollevazione dei senatori e deputati del Great Old Party, per parte loro terrorizzati all’ipotesi di una vittoria schiacciante dei democratici sull’onda dell’indignazione e della rabbia popolare contro la gestione dissennata di George W. Bush in questi otto terribili e lunghissimi anni nei quali si è infranta l’immagine degli USA all’estero, sono stati sconquassati i conti pubblici, è peggiorata la già disastrosa posizione debitoria netta nei confronti dell’estero e stanno scomparendo una dopo l’altra importanti istituzioni finanziarie e, spesso, con esse, i risparmi di una vita della classe media statunitense, per non parlare del fatto che l’American Dream è stato ridotto letteralmente in frantumi!

Non avendo nessuna intenzione di aspettare che il deal tra democratici e repubblicani maturi in perfetta zona Cesarini, cioè in tempo per l’apertura della seduta di lunedì dei mercati asiatici che, a causa del fuso orario, avverrà quando negli USA sarà la tarda serata di domenica, presto volentieri fede alle anticipazioni provenienti da esponenti del GOP che lasciano capire che sta per avere termine la sceneggiata della ribellione che ha raggiunto già il suo grosso obiettivo che è poi quello di dimostrare che la colpa del salvataggio è da ascrivere ai democratici, che, nel frattempo portano a casa una chiara vittoria ai punti dello sfidante Obama sul sempre più appannato veterano del Vietnam e delle mille battaglie vinte e perse in quella vera giungla rappresentata dal Senato degli Stati Uniti d’America.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.