La prevedibile euforia che ha pervaso pressoché tutti i mercati azionari del mondo dopo l’annuncio, e le innumerevoli interviste televisive, tanto atteso del ministro del Tesoro a stelle e strisce ed ex numero uno della potente e molto preveggente Goldman Sachs che ha messo finalmente fine alla lunga telenovela sul salvataggio di Fannie e Freddie, un intervento volto a salvare gli acquirenti degli ormai famosissimi GSE che ora aggiungono i loro 5.200 miliardi di dollari di ammontare complessivo al già gigantesco debito pubblico statunitense che non era lontano dal tetto costituzionale di 9 mila miliardi di dollari anche prima di questa gigantesca immissione, un’immissione che porta d’un balzo lo stock del debito vicinissimo se non al di sopra della soglia del 100 per cento del Gross Domestic Product degli Stati Uniti d’America.
Quello che lascia letteralmente stupefatti è il comportamento dei residui azionisti delle due entità orami divenute pubbliche nel tempo che ci separa da quando, nel giugno di quest’orribile 2008, venne varato dal Congresso un provvedimento che istituiva una nuova entità federale avente la missione di sovrintendere a Fannie e Freddie, in quanto questi azionisti, invece di liberarsi ad ogni costo ed in tutta fretta di quella che era destinata inevitabilmente a trasformarsi in carta straccia, hanno continuato a strapparsi di mano pacchi di azioni, spingendo così le quotazioni di molto al di sopra dei minimi registrati all’inizio di quest’estate.
Questi investitori/risparmiatori non hanno nemmeno l’alibi di essere stati oggetto di menzogne da parte dell’establishment finanziario, per il semplicissimo motivo che si sapeva bene sin dall’inizio che l’unico obiettivo che Paulson, Bernspan e complici si ponevano era quello di garantire il rimborso dei 36 miliardi di dollari spesse dalle principali banche di tutto il mondo per acquistare le preferred shares emesse, nell’impossibilità di effettuare aumenti di capitale per via ordinaria, da Fannie e da Freddie, ma, soprattutto, di rassicurare le banche ovunque basate ed inzeppate dei titoli rappresentativi del debito delle due entità che, come voleva la vulgata corrente, venivano assimilati ai Treasury Bonds e che finalmente per loro da ieri lo sono!
Mi vedo costretto a rivestire i panni del discepolo virtuale del grande John Maynard Keynes che, per motivi squisitamente anagrafici non ho mai avuto l’onore di conoscere personalmente, in quanto non sarei in grado di aggiungere neanche una parola a quelle che ci ha lasciato in eredità e perfettamente in grado di descrivere i livelli abissali di stupidità, avidità e paura che spesso caratterizzano quanti decidono di cimentarsi con quel gigantesco casinò a cielo aperto che è sempre stato il mondo della finanza, anche quando, come accadeva ai suoi tempi, era caratterizzato da dimensioni inifinitamente inferiori a quelle raggiunte dal mercato finanziario globale.ai giorni nostri.
Ma quello che mi preme davvero analizzare è proprio la reazione euforica dei mercati alla notizia del salvataggio di Fannie e Freddie, della povera e negletta Sallie Mae non si hanno ancora notizie, anche se va detto in premessa che è bastato attendere la chiusura delle contrattazioni per vedere che parte dell’entusiasmo si era bellamente persa per strada, perché risulta francamente capire cosa ci trovino di così positivo gli operatori e gli analisti nel fatto che i titoli rappresentativi del debito delle due gigantesche entità operanti nel mortgage siano ora assimilabili a titoli del Tesoro statunitense e vadano a sommarsi, ad esempio nelle riserve ufficiali delle banche centrali o nei portafogli di proprietà delle banche di tutto il mondo ai Treasury Bonds, un affollamento del rischio sovrano USA che potrebbe portare ad una accelerazione dei processi di ricomposizione da lungo tempo in corso.
Delle tante cose che ho sentito o letto in queste ore, ve ne è una che mi ha colpito particolarmente ed è rappresentata dalla considerazione del capo economista di una delle tante società di ricerca private esistenti negli Stati Uniti che considera i guai di Fannie e Freddie soltanto un sintomo e non certo la causa dell’attuale tempesta perfetta, anche se un qualche ruolo l’impacchettamento dei mutui effettuato dalle due entità qualche contributo a quanto è accaduto, in realtà, lo ha pure dato.
Mettendo insieme l’editoriale domenicale di Peppino Turani e la sferzante analisi delle implicazioni del salvataggio della colonna portante del mortgage statunitense a firma di Federico Rampini, emtrambi opinionisti di prestigio del quotidiano La Repubblica, possiamo stare certi che quella che si sta profilando all’orizzonte potrebbe davvero essere l’ondata più devastante della tempesta perfetta, un’ondata che giungerebbe quando le casse del Tesoro USA, quelle delle banche centrali e la liquidità interbancaria sono giunte oramai al lumicino e nessuno sa come far fronte alle crescenti esigenze della Federal Deposit Insurance Corporation che, dopo il fallimento di appena undici banche di media e piccola stazza, ha già denunciato di essere a corto di mezzi e questo proprio mentre si infittiscono le voci sulla prossima dichiarazione di default da parte di una banca di grandi, se non grandissime dimensioni.
Ma quali sono le prospettive del dollaro, la valuta che proprio ieri un rilevante numero di economisti e di analisti vedevano destinato ad una sensibile fase di recupero nei confronti delle principali valute? Mi dispiace assumere per l’ennesima volta i panni di guastafeste, ma credo che quanto sta avvenendo sotto gli occhi di tutti crei, piuttosto le premesse per uno scivolamento della valuta di un paese che ha dovuto ammettere di fronte al mondo intero che la sua finanza pubblica, sia in termini di deficit che di stock del debito, è ormai alla frutta, lo stato dei conti con l’estero continua, nonostante il rinvigorimento dell’export legato al dollaro debole, a livello comatoso, per non parlare del credit crunch che inizia a mordere le imprese di ogni ordine e grado, spingendo i lobbisti del settore automobilistico a stelle e strisce ad implorare il Congresso di concedere loro un mega finanziamento da 50 miliardi di dollari.
Avendo tenuto dritta la barra del timone sul prezzo del petrolio che avevo continuato a vedere a 75 dollari al barile entro la fine del 2008 anche quando sfiorava i 150 dollari e un analista di Goldman Sachs prevedeva che sarebbe giunto a 200 ( non se sia lo stesso che ieri ha previsto che potrebbe tronare a breve a 90 dollari), così mantengo inviavate le previsioni sulla valuta statunitense che prevedo tocchi il livello degli 1,70 contro l’euro e sprofondi anche sotto i 95 yen per dollaro, con orizzonte temporale posto sempre alla fine del 2008.
I motivi di queste previsioni sono presto detti, in quanto vanno individuati, per il greggio e le altre materie prime, nell’andamento nettamente cedente della domanda mondiale legato alla recessione di fatto già in corso, mentre, per quanto riguarda il dollaro, non credo proprio che la fase che precede le elezioni sia favorevole ad un rafforzamento che finirebbe per stroncare sul nascere la ripresa dell’export!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.