sabato 7 marzo 2009

Il big downsizing dell'azienda America!


Nel corso dei diciannove mesi nei quali ho scritto le oltre cinquecento puntate del Diario della crisi ho più volte sottolineato l’importanza cruciale del dato relativo al Non Farm Payrolls e al correlato Unemployment Rate, per la semplice ragione che, nella vasta messe di informazioni analitiche e molto aggiornate fornite dai vari enti statunitensi pubblici e privati che si occupano di fornire al mercato le statistiche necessarie per dare agli operatori e ai risparmiatori/investitori i necessari elementi per operare le proprie scelte, questi due dati hanno il massimo impatto psicologico possibile, indicando in modo ancora più chiaro di dati come la produzione industriale o l’andamento del prodotto interno lordo la direzione che sta prendendo l’economia della nazione più importante sia in termini economici che geopolitica del nostro alquanto martoriato pianeta.

Pur riferendosi al mese più corto dell’anno, quel febbraio che, a differenza di quanto è accaduto nell’orribile 2008, non è anche bisestile, il saldo netto negativo di 651 mila buste paga, nonché il balzo al di sopra dell’assicella dell’8 per cento del tasso di disoccupazione (8,1), è un’informazione che ha fatto tremare molti posi a Washington D.C. e dintorni, anche perché è stato fornito insieme alla tremenda revisione dei due mesi precedenti che assieme sfiorano un taglio di un milione e trecentomila posizioni di lavoro, il che porta la perdita netta degli ultimi tre mesi a sfiorare i due milioni di unità, mentre una puntuale nota dell’Associated Press ci informa che l’economia a stelle e strisce avrebbe perso, dall’inizio della crisi dell’economia reale datata al dicembre del 2007, quattro milioni e quattrocentomila posti di lavoro.

In realtà, la perdita effettiva è di molto superiore, per il semplicissimo motivo che si tratta di saldi netti tra entrati e usciti, il che, pur in quattordici mesi non eccezionali per le assunzioni, implica che i posti di lavoro effettivamente perduti si aggirano tra i 6 e i 6,5 milioni, con l’aggravante che, almeno per la maggior parte di essi, si trattava di posti di lavoro ben remunerati, in particolare per quanto riguarda i circa duecentomila dipendenti di ogni ordine e grado delle diverse entità operanti nel mercato finanziario statunitense che, tra retribuzioni e bonus, contribuivano in misura significativa alle entrate della città e dello Stato di New York, come non manca di sottolineare a ogni piè sospinto il disperato sindaco Michel Bloomberg, uno che di economia e di finanza si intende davvero!

Se vi è ancora qualcuno tra i miei lettori che si stupisce del fatto che, almeno all’apertura, i tre principali indici azionari statunitensi hanno cercato di prendere il volo, vuol proprio dire che non ha ancora compreso il modo di ragionare degli operatori, degli analisti e degli stessi risparmiatori/investitori, che, negli Stati Uniti d’America come nel resto del mondo, non è proprio improntato a quei sentimenti di solidarietà e di umana pietà che normalmente albergano nei cuori quando ci si trova in una chiesa cattolica o protestante, in una sinagoga o in un luogo di culto islamico, solo per fermarci alle tre principali religioni monoteiste, in quanto, in quell’immenso casinò a cielo aperto che è oramai divenuto il mondo della finanza più o meno strutturata, albergano due soli sentimenti: la paura e l’avidità, in proporzioni che sono generalmente ben fotografate dall’andamento degli indici rappresentativi dei mercati regolamentati, poco importa che vi siano trattate merci, materie prime o quelle scommesse spesso ad alto rischio che vengono denominate azioni o obbligazioni.

Che le cose si sarebbero messe così, lo avevano capito alla perfezione gli operatori e gli investitori che, grazie ai diversi fusi orari, avevano già mandato in profondo rosso gli indici azionari asiatici e, subito dopo, quelli dei principali mercati europei, sia al di qua che al di là della Manica, un tratto di mare che, al pari di quanto sta avvenendo all’Oceano Atlantico e a quello Pacifico, si sta facendo ogni giorno che passa più stretto, al punto da rendere attuale e credibile anche una possibile adesione dei sudditi di Sua Maestà britannica, governati dal ‘salvatore del mondo’ Gordon Brown, a quella moneta unica europea che sino a poco tempo fa, e in modo del tutto bipartisan, veniva vista come assolutamente non confrontabile con l’amata sterlina, una valuta davvero storica e che solo in tempi non remoti aveva accettato di essere divisa in centesimi e non in dodicesimi!

Mi ha molto colpito la notizia di un rapporto dei servizi segreti inglesi che ha messo in guardia le autorità rispetto ai rischi di rivolte popolari o peggio derivanti dalla crisi finanziaria ed economica che sta attanagliando le isole britanniche ancora di più di quanto stia nel contempo avvenendo nell’Europa Continentale, anche per la maggiore interrelazione esistente tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America, due nazioni strette non solo dalla Storia, ma anche da legami e affinità che spesso fanno sì che i partners europei dubitino della volontà britannica di giungere mai all’edificazione di quegli Stati Uniti d’Europa che erano non solo il sogno di Monnet, ma anche dei padri fondatori ufficiali di quel Mercato Comune Europeo che, non del tutto a caso, non includeva all’inizio la Gran Bretagna.

Il nesso esistente tra il brusco abbassamento del tenore di vita dei cittadini derivante dagli alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo e l’ordine pubblico, se non la stessa sicurezza nazionale, è peraltro un tema che agita da tempo i sonni dei governanti dei maggiori paesi europei, per non parlare degli incubi notturni dei governanti dei paesi un tempo appartenenti alla sfera di influenza dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e di quella Russia che ha affidato chiavi in mano il suo Governo agli uomini del famigerato KGB, ritenendoli, a torto o a ragione, gli unici in grado di impedire alla Santa Madre Russia di diventare, dopo essere stata il cuore pulsante di una Superpotenza, poco più di una mera espressione geografica; una scelta sponsorizzata dagli USA e dai paesi europei che contano, terrorizzati di ritrovarsi con un fianco sguarnito rispetto al montante fondamentalismo islamico, un’ipotesi davvero terrificante all’indomani dell’11 settembre 2001!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .