Sono trascorsi oltre venticinque anni da quando, giovane economista impegnato nell’ufficio studi della Banca Nazionale del Lavoro, curavo una pubblicazione trimestrale denominata “Segnalazioni dalla letteratura economica” sotto la supervisione di Alberto Mucci, un giornalista di successo, già direttore de Il Sole 24 Ore e vice direttore del Corriere della Sera che decise, non so bene per quale motivo, di assumere la responsabilità proprio dello stesso ufficio studi della BNL, e sfruttando spero al meglio qualche gentile consiglio che, in occasione del numero monografico su John Maynard Keynes, volle darmi il professor Federico Caffè, un’esperienza durata, purtroppo, solo tre anni, ma che mi dato modo di navigare in piena libertà nel web di allora, che era costituito dai libri e articoli redatti da economisti, esperti di previsioni, pensatori della più varia specie e natura, qualcuno italiano, ma la maggior parte stranieri.
Non del tutto a caso, le prime collaborazioni con i quotidiani furono in larga misura delle brevi recensioni di testi aventi la stessa natura, anche se non avrei mancato di mettermi nei guai “allargandomi”, come accade a metà degli anni Ottanta su Reporter, su questioni più contemporanee e assumendo, in solido con un caporedattore economico, Pino Leuzzi, che ricordo ancor oggi con grande stima e affetto, posizioni che non vennero affatto gradite da Adriano Sofri, allora influente maitre a penser di quel quotidiano, il che costrinse il direttore pro tempore, Enrico Deaglio, a privarsi anzitempo della mia collaborazione e a fornirmi una prima idea più terrena sulla libertà di espressione di cui godeva un collaboratore esterno nell’ambito di una testata giornalistica, poco importa se collocata a sinistra, anche estrema, al centro o a destra, anche se devo ammettere di non essere stato in grado (o di non avere proprio voluto) di apprendere in tutto il suo valore quell’involontaria esperienza di vita.
Come sosteneva, in quegli stessi anni, la mia indimenticabile maestra di Mantra Yoga, Manuela Borri Renoso, allieva di Mere e di Aurobindo, nonché di Gerard Blitz, questo era in realtà il mio destino, una sorte alla quale non ho mai cercato di sottrarmi in tutte le variegate e interessantissime esperienze di vita, di ricerca spirituale e di lavoro che hanno caratterizzato i successivi trenta anni, inclusa la ben poco responsabile decisione di dare vita all’avventura editoriale del Diario della crisi finanziario, giunta, mio malgrado, a oltre cinquecento puntate e che, il 4 aprile, compirà il suo diciannovesimo mese di vita, mentre questo blog ne ha da poco compiuti sedici di mesi, un’avventura dalla quale ho avuto grandi soddisfazioni, ma in relazione alla quale, as usual, ho pagato in termini professionali e personali i miei prezzi!
Scusandomi con i miei lettori per la lunga digressione personale, vorrei giusitificarla, almeno in parte, dicendo che la stessa nasce proprio da una recensione fatta nei primi anni Ottanta del libro di un venture capitalist statunitense dell’epoca di cui non ricordo neanche più il nome, ma che scrisse un bel pamphlet dal suggestivo titolo “Making America Work Again”, un testo redatto dopo la recessione che culminò con il disastroso 1982, un quinquennio prima di quell’ottobre nero per le borse mondiali del 1987 che rappresentò poi, a mio modestissimo avviso, un chiaro segnale anticipatore della tempesta perfetta in corso da poco meno di ventuno mesi e che vide muovere i suoi primi passi come responsabile del sistema della riserva federale quell’Alan Greenspan che è indubitabilmente il cattivo maestro del suo successore Ben Bernanke, in arte Bernspan.
Approfittando di uno dei pochissimi week end di relativo riposo per i leaders politici e per i banchieri centrali di tutto il mondo, anche se è noto che molte delegazioni che saranno presenti da giovedì della prossima settimana a Londra per il summit del G20/G21 stanno furiosamente lavorando ai propri ponderosi dossier, credo sia utile fare un po’ il punto della situazione, anche perché, come scrivevo nella puntata di ieri, non tutto deve essere andato liscio nell’incontro a porte rigorosamente chiuse svoltosi venerdì scorso alla Casa Bianca tra Obama e Larry Summers da un lato e i massimi esponenti delle prime sedici banche operanti sul suolo a stelle e strisce dall’altro, un incontro che non deve proprio avere sortito gli effetti di riavvicinare le posizioni della nuova amministrazione statunitense e quelle di quelli che, a torto o a ragione, l’opinione pubblica americana, in linea, peraltro, con quella mondiale, considera i maggiori responsabili della più grave crisi finanziaria e dell’economia reale mai vista a memoria di uomo o di donna!
Una distanza destinata, purtroppo per tutti noi, ad allargarsi ulteriormente, sia per le molto ferali notizie delle quali gli esausti banchieri erano latori sulla situazione sempre più disastrosa dell’amplissimo mercato dei derivati, sia per la forte resistenza che sta incontrando nei due rami del Congresso a stelle e strisce l’ancor troppo poco dettagliato piano Geithner sullo smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata, mentre analoga sorte sta incontrando il Budget 2009 fortemente voluto da Obama e dagli esponenti del suo oramai un po’ appannato Dream Team, appannamento in gran parte dovuto alla transizione di molti dei suoi esponenti dal comodo ruolo di sognatori a quello ben più improbo di realizzatori delle un po’ fumose idee delineate in quel periodo di transizione tra le due amministrazioni che non è mai apparso lungo come in questa occasione.
Non differenziandosi molto dai loro colleghi al vertice delle tecnicamente fallite maggiori case automobilistiche, i sedici banchieri capitanati dall’ineffabile boss della potente e ancor più preveggente Goldman Sachs (quel Larry Blankfein che forse ancora non sa se dovrà restituire la poltrona a Hank Paulson, dopo che questi ha davvero compiuto la missione per la quale è stato spedito a metà del 2006 a reggere il molto scomodo dicastero del Tesoro) devono avere usato tutta la loro capacità persuasiva per convincere il nuovo inquilino della Casa Bianca che non sarebbe del tutto una buona idea quella di mettersi alla testa del moto popolare di profonda indignazione per le loro malefatte, un’ipotesi che Obama non ha ancora del tutto accantonato!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog