L’aver relegato al fondo della puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria l’esternazione del numero uno della prima banca tedesca, Joseph Ackermann, non è assolutamente un segnale di sottovalutazione né del personaggio, né tanto meno di quella Deutsche Bank da lui profondamente ristrutturata in oltre un decennio di guida e divenuta una delle banche universali europee protagoniste del mercato finanziario globale.
Il potente banchiere non è, d’altra parte, nuovo a uscite estemporanee e fuori del coro, basti ricordare i suo commenti non certamente entusiastici dopo la cena delle beffe offerta la meglio del meglio del gotha bancario mondiale da Bernspan e Paulson nell’aprile del 2008 o il suo porsi di traverso rispetto al primo tentativo dell’ex ministro del Tesoro statunitense di provare a risolvere il problema dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata alla fine del lontano mese di settembre del 2007.
Ma stavolta Joseph ha davvero pronunciato una frase dal sen fuggita, quando ha messo in guardia dai facili ottimismi sulla possibile conclusione della tempesta perfetta in corso da due anni, così sulle magnifiche e progressive sorti del sistema bancario globale, anche se stavolta i problemi proverrebbero non dai frutti avvelenati intrinsecamente connessi alle invenzioni degli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto dell’investment banking, ma bensì dall’attività creditizia in senso stretto, per la quale, come ricordavo ieri, non valgono le nuove norme contabili che hanno consentito alle stesse banche più o meno globali di non valutare, sarebbe più appropriato dire svalutare, i titoli tossici della finanza più o meno strutturata tuttora presenti al di sopra o al di sotto delle rispettive linee di bilancio secondo il criterio del mark to market.
L’allarme lanciato da Ackermann ha trovato a brevissimo riscontro nel bilancio relativo al secondo trimestre 2009 della banca da lui guidato, un bilancio gravato da accantonamenti per possibili perdite su crediti multipli di quelli effettuati nel trimestre precedente, mentre un approccio prudenziale analogo aveva caratterizzato, sia a livello di rendiconto trimestrale che di outlook per quel che resta dell’anno in corso, le maggiori banche statunitensi e quelle, tra le loro omologhe europee, che hanno già presentato, per esteso o per sommi capi, i rendiconti relativi al secondo trimestre.
Un discorso a parte va fatto per le due ex investment banks statunitensi sopravvissute agli alti marosi della tempesta perfetta e rimaste sole a confrontarsi con le divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche globali basate sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, anche se, come emerge con chiarezza dalle rispettive trimestrali, Morgan Stanley sta vivendo più o meno lo stesso problema che caratterizza le banche universali, mentre la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, pur essendosi sulla carta trasformata in banca ordinaria, continua a svolgere in larga prevalenza attività di trading su tutto quanto è quotato nei mercati regolamentati o attività consulenziali di vario genere ed è, pertanto, ben poco affetta dal rischio creditizio sia presente che futuro, se non per quello collegato ai collaterali dei titoli della finanza strutturata che ancora le sono rimasti sul groppone.
Nella puntata di domani cercherò di rendere più comprensibile al lettore, in base alle informazioni disponibili e alle dettagliate previsioni del Fondo Monetario Internazionale, il motivo per il quale il banchiere tedesco teme più il futuro che i due anni terribili che ci stiamo lasciando alle spalle.