E’ davvero strano che in una giornata domenicale di questo torrido mese di agosto mi veda costretto a scegliere tra due argomenti altrettanto interessanti e altrettanto meritevoli di fare da tema alla odierna puntata del Diario della crisi finanziaria, una scelta che non me la sono sentita di fare, per cui parlerò brevemente di entrambi.
Nello stesso giorno nel quale Bernspan si produceva, complice un meeting di banchieri centrali in terra americana, nelle sue previsioni sulla ripresa prossima ventura, la Federal Deposit Insurance Corporation decideva, ovviamente a mercati chiusi, la chiusura della Guaranty Bank, una banca con sede ad Austin (Texas) con depositi per 12 miliardi di dollari e assets per 13 miliardi di dollari e con 162 filiali tra il Texas e la California, un fallimento che, per dimensioni, si pone immediatamente alle spalle di quello della Colonial Bank deciso la settimana precedente, con 20 miliardi di dollari di depositi, 22 di assets e 346 filiali operanti in cinque Stati.
In entrambi i casi, queste chiusure erano state accompagnate da quelle di altri istituti di minori dimensioni, portando il totale dei fallimenti bancari nei primi otto mesi del 2009, contro i 25 dell’anno scorso e i 3 del 2007, anche se siamo ancora ben lontani dalla vera e propria ecatombe di banche verificatasi nel corso del 1992 e dovuta alla crisi sistemica delle Saving & Loans statunitensi.
Al di là dell’ennesima emorragia di soldi pubblici, prudenzialmente stimati i 3 miliardi di dollari, quello che colpisce di più nella vicenda della Guaranty Bank è che a fare la parte del cavaliere bianco non è una banca statunitense di maggiori dimensioni, ma la BBVA Compass, affiliata americana del colosso creditizio spagnolo Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, che diviene così la quindicesima banca commerciale a stelle e strisce, con 600 filiali sparse tra la Florida e la California e con poco meno di 50 miliardi di dollari di depositi.
Si tratta del primo intervento di salvataggio di una banca statunitense effettuato da un gruppo bancario straniero, non del tutto a caso coincidente con una delle due maggiori banche spagnole, le stesse che hanno dimostrato nei fatti di dovere buona parte del loro eccellente stato di salute proprio al fatto di essersi tenuti alla larga dai titoli più tossici elaborati dagli apprendisti stregoni della finanza strutturata e che hanno anche per questo ottime chances di rafforzare la propria presenza negli Stati Uniti d’America a prezzi di vero saldo e negli Stati caratterizzati dalle maggiori percentuali di residenti di origine latino-americana.
L’altro argomento è rappresentato da un lungo reportage del New York Times sulla fine di quel processo trentennale di redistribuzione del reddito in terra statunitense e che è facilmente sintetizzabile nel passaggio da una quota del prodotto interno lordo riservata all’1 per cento della popolazione più ricco dal 9 per cento del 1977 al 23,5 per cento del 2007, un processo che sembrava destinato a durare in eterno ma che, pur non disponendo ancora delle accuratissime statistiche elaborate dall’IRS, il fisco statunitense, per il 2008, avrebbe subito una significativa battuta di arresto sia nel 2008 che nell’anno in corso, come dimostrano i dati di Forbes, di Cap Gemini e di altre fonti specializzate nel monitorare l’andamento dei patrimoni della parte più affluent della popolazione sia negli USA che nel resto del mondo, nonché il tracollo delle vendite di case da oltre due milioni di dollari e la vicenda personale di John McAfee, l’ex proprietario di una società specializzata negli antivirus, passato da 100 a soli 4 miliardi di dollari!