Il sensibile calo dell’emorragia di posti di lavoro segnalato dal Non Farm Payrolls e la lievissima limatura del tasso di disoccupazione ufficiale statunitense, nonché l’intervento asiatico di Paul Krugman che vede sventato il rischio di una Grande Depressione parte seconda avrebbero dovuto mettere le ali ai mercati azionari di tutto il mondo, con Wall Street a fare da apripista, ma, almeno a vedere le prime due sedute della settimana, tutto questo non sta avvenendo ed è davvero esilarante leggere i commenti di questo apparentemente strano andamento delle borse, tutti improntati al leit motiv dei profit taking o all’attesa di qualche nuova notizia che fornisca nuovo propellente ai mercati.
Il problema è che di notizie positive è difficile possano essere molte sino a quando i consumatori continueranno a cercare di sistemare le proprie faccende in materia di indebitamento, cosa perfettamente visibile sia nell’andamento negativo del credito al consumo, sia nella netta ripresa della propensione al risparmio, o non riprenderà quel ciclo delle scorte che langue da dieci mesi consecutivi, con le scorte in calo dell’1,7 per cento in luglio e dell’1,2 per cento nel mese precedente, per non parlare poi di quel calo dei consumi evidenziato dal dato sul prodotto interno lordo statunitense, una flessione che è in parte causa e in parte effetto dei fenomeni appena richiamati.
A guastare ulteriormente la festa agli ottimisti a oltranza è venuta poi un’attenta analisi dell’entità preposta a rendere conto al Congresso dell’utilizzo dei 700 miliardi di dollari previsti dal TARP, un denso testo che sostiene, in buona sostanza, che le banche a stelle e strisce sono ancora gravate da una montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata, un dato di fatto che né Hank Paulson, né il suo successore Timothy Geithner sono riusciti a far sparire con gli immaginifici marchingegni da loro inventati e pomposamente presentati, marchingegni che non sono mai diventati realtà.
La diffusione del testo congressuale ha avuto l’effetto di innescare forti vendite dei titoli delle maggiori banche americane, sventando davvero in extremis il tentativo dell’azione di Citigroup di riguadagnare l’area dei quattro dollari, mentre qualche dubbio sulle future sorti di Bank of America era già venuto a molti nella giornata di lunedì, quando, grazie alla dettagliata ricostruzione dell’utile che la banca è tenuta a inoltrare alla Securities & Exchange Commission, si è scoperto che il risultato delle attività svolte negli USA sono in perdita per alcune centinaia di milioni di dollari, mentre l’utile dichiarato di 2,4 miliardi è interamente dovuto alla vendita, per 3,5 miliardi di dollari, di un ramo d’azienda asiatico, mentre reali sono gli ingentissimi accantonamenti effettuati da BofA nello stesso trimestre, conditi peraltro da previsioni assai pessimistiche sulla qualità del credito formulate dallo stesso Chief Financial Officer della banca.
Non sapendo più a che santo votarsi, analisti e giornalisti un po’ embedded hanno cercato di attribuire i malumori degli investitori alla riunione del Federal Open Market Committee iniziata ieri e che si concluderà domani, una riunione che, fermo restando il nulla di fatto in materia di tassi di interesse, potrebbe concludersi con un comunicato che un mutamento futuro della politica monetaria di Bernspan e dei suoi soci, un’ipotesi, a mio modesto avviso, del tutto irrealistica, anche alla luce della recente conferenza stampa di Jean Paul Trichet e delle decisioni prese dalla Bank of England e dalla Bank of Japan, affermazioni e decisioni che, in perfetta sintonia con quanto detto da Krugman, vedono ancora molto lontana la luce in fondo al tunnel!