mercoledì 19 agosto 2009

Prove tecniche di deflazione!


In questi poco meno di due anni da quando ho deciso di dare vita al Diario della crisi finanziaria, mi sono reso più volte conto di quanto, a volte, sia necessario anche su argomenti trattati nella puntata del giorno precedente, una necessità resa ancora più cogente dal fatto che quello di cui mi sono occupato ieri, così come farò oggi, è strettamente legato allo spauracchio maggiore per gli economisti di ogni scuola e orientamento e che è rappresentato dalla possibilità che si stia innescando quel processo di caduta generalizzata dei prezzi che prende il nome di deflazione, un rischio a lungo concretizzatosi nel corso della Grande Depressione e che, al di là del sollievo momentaneo per il portafogli dei consumatori, può avere effetti davvero catastrofici e rinviare a data da destinarsi la tanto sospirata ripresa.

Per avere un’idea della sensibilità degli operatori e degli investitori rispetto a questa questione, è sufficiente osservare la reazione quasi isterica dei mercati azionari di tutto il mondo, ma in particolare a quella materializzatasi a Wall Street, nell’ultima seduta della scorsa settimana e nella prima di quella in corso all’annuncio che l’indice dei prezzi al consumo aveva registrato variazioni negative su base annua sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, una flessione particolarmente significativa negli Stati Uniti d’America, con i prezzi del luglio 2007 inferiori del 2,1 per cento rispetto a quelli dello stesso mese dell’anno precedente.

Ma il dato relativo all’andamento dell’indice che misura i prezzi alla produzione negli USA comunicato ieri e sempre con riferimento al mese di luglio ha indicato una flessione sia su base mensile che annua molto più accentuata di quella segnalata dal Consumer Price Index (-0,9 e -6,8 per cento, rispettivamente), una flessione che, con riferimento alla sola variazione congiunturale, è risultata tripla rispetto alle previsioni degli analisti e che si è accompagnata a una nuova flessione nelle vendite di case di nuova costruzione e delle richieste di permessi edilizi, dati questi ultimi che vedono un piccolo recupero delle case individuali e un vero e proprio tracollo (-73 per cento) per quanto riguarda gli appartamenti.

Come spesso accade, i mercati azionari hanno cercato di recuperare parte del terreno perduto nelle due precedenti sedute, un fenomeno in parte legato alle ricoperture di posizioni scoperte, ma che rappresenta anche una sorta di esorcizzazione collettiva rispetto alla seconda conferma in pochi giorni della necessità dell’offerta di seguire una domanda tutt’altro che brillante, un fenomeno che resiste pure alla sterilizzazione delle componenti più volatili dell’indice e che sono rappresentati da prodotti energetici e alimentari.

Ma la notizia che fa più riflettere è quella relativa alla perdita record da 1,68 miliardi di dollari subita da CIT Group nel secondo trimestre dell’anno e comunicata sempre ieri alla Securities & Exchange Commission (quella stessa SEC che si sta affrettando a varare una nuova normativa sulle vendite allo scoperto), una perdita che va confrontata con quella di 2,02 miliardi di dollari registrata nello stesso trimestre del 2008, ma che era allora determinata dalla contabilizzazione di costi non ripetibili per 2,55 miliardi, il che, in altre parole, vuole dire che l’attività caratteristica di CIT è stata in rosso per 1,62 miliardi contro un utile modesto, ma pur sempre un utile, nel secondo trimestre dell’anno scorso, risultati che la dicono lunga sulle persistenti possibilità che la banca di riferimento dei dettaglianti e dei grossisti statunitensi potrebbe essere costretta a ricorrere a quella procedura fallimentare che sembrava evitata grazie alla recente ristrutturazione di parte del suo ingente debito!