venerdì 7 agosto 2009

I timori di Herr Ackermann! (versione per stampa)


L’aver relegato al fondo della puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria l’esternazione del numero uno della prima banca tedesca, Joseph Ackermann, non è assolutamente un segnale di sottovalutazione né del personaggio, né tanto meno di quella Deutsche Bank da lui profondamente ristrutturata in oltre un decennio di guida e divenuta una delle banche universali europee protagoniste del mercato finanziario globale.

Il potente banchiere non è, d’altra parte, nuovo a uscite estemporanee e fuori del coro, basti ricordare i suo commenti non certamente entusiastici dopo la cena delle beffe offerta la meglio del meglio del gotha bancario mondiale da Bernspan e Paulson nell’aprile del 2008 o il suo porsi di traverso rispetto al primo tentativo dell’ex ministro del Tesoro statunitense di provare a risolvere il problema dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata alla fine del lontano mese di settembre del 2007.

Ma stavolta Joseph ha davvero pronunciato una frase dal sen fuggita, quando ha messo in guardia dai facili ottimismi sulla possibile conclusione della tempesta perfetta in corso da due anni, così sulle magnifiche e progressive sorti del sistema bancario globale, anche se stavolta i problemi proverrebbero non dai frutti avvelenati intrinsecamente connessi alle invenzioni degli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto dell’investment banking, ma bensì dall’attività creditizia in senso stretto, per la quale, come ricordavo ieri, non valgono le nuove norme contabili che hanno consentito alle stesse banche più o meno globali di non valutare, sarebbe più appropriato dire svalutare, i titoli tossici della finanza più o meno strutturata tuttora presenti al di sopra o al di sotto delle rispettive linee di bilancio secondo il criterio del mark to market.

L’allarme lanciato da Ackermann ha trovato a brevissimo riscontro nel bilancio relativo al secondo trimestre 2009 della banca da lui guidato, un bilancio gravato da accantonamenti per possibili perdite su crediti multipli di quelli effettuati nel trimestre precedente, mentre un approccio prudenziale analogo aveva caratterizzato, sia a livello di rendiconto trimestrale che di outlook per quel che resta dell’anno in corso, le maggiori banche statunitensi e quelle, tra le loro omologhe europee, che hanno già presentato, per esteso o per sommi capi, i rendiconti relativi al secondo trimestre.

Un discorso a parte va fatto per le due ex investment banks statunitensi sopravvissute agli alti marosi della tempesta perfetta e rimaste sole a confrontarsi con le divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche globali basate sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, anche se, come emerge con chiarezza dalle rispettive trimestrali, Morgan Stanley sta vivendo più o meno lo stesso problema che caratterizza le banche universali, mentre la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, pur essendosi sulla carta trasformata in banca ordinaria, continua a svolgere in larga prevalenza attività di trading su tutto quanto è quotato nei mercati regolamentati o attività consulenziali di vario genere ed è, pertanto, ben poco affetta dal rischio creditizio sia presente che futuro, se non per quello collegato ai collaterali dei titoli della finanza strutturata che ancora le sono rimasti sul groppone.

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La sterilizzazione dell’enorme quantità di titoli più o meno tossici della finanza strutturata è, in realtà, soltanto apparente, per il semplice motivo che solo una parte di essi è stata messa a perdita dalle entità protagoniste del mercato finanziario globale, mentre una quota è stata acquisita dal sistema della riserva federale mediante operazioni che non hanno sollevato dal rischio finale le banche cedenti i titoli stessi e mentre si è ancora in attesa dei quelle joint ventures tra entità pubbliche e private che dovrebbero rilevare un’ulteriore fetta a un prezzo che, se fosse (come è stato assicurato solennemente dal ministro del Tesoro) di mercato, costringerebbe le banche a contabilizzare rilevantissime minusvalenze.

Ma il problema è rappresentato dal fatto che le esposizioni della specie ancora in carico alle banche vanno finanziate e questo, al netto del generosissimo e pressoché gratuito sostegno fornito da Bernspan, va comunque coperto mediante raccolta di varia provenienza che non può essere impiegata altrimenti, una situazione che non è solo spiegabile con la contingente avversione al rischio che caratterizzerebbe i banchieri di ogni ordine e grado, costituendo così un’ulteriore ragione di quel fenomeno di credit crunch che è oramai apertamente riconosciuto dagli stessi banchieri centrali.

Poiché è in qualche modo vero anche in economia quello che, con riferimento alla natura, sosteneva Lavoisier e,cioè, che nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, il conto della moltiplicazione dei pani e dei pesci operata via finanza strutturata sarà, per le principali entità protagoniste del mercato finanziario globale, non meno dolorosa e non troppo diversa da quella già toccata in sorte ai possessori di obbligazioni di Chrysler, General Motors e delle altre entità che hanno chiesto la protezione offerta contro i creditori dalla legge fallimentare, per non parlare di quella non meno infelice toccata agli azionisti che non sono riusciti a liberarsi in tempo del loro investimento!

Ma anche se tutto questo era vero anche prima che Ackermann lanciasse l’allarme sui rischi creditizi, non vi è chi non si renda conto che la non soluzione del problema precedente è già costata, secondo l’ultima stima del Fondo Monetario Internazionale, 10 mila miliardi di dollari alle pubbliche finanze, per non parlare delle molte decine di migliaia di miliardi di dollari di impegni, in buona parte assistiti da collaterale (sic), che ovviamente non sarebbero disponibili in caso di collasso sistemico, ma che hanno certamente quasi del tutto raschiato il barile delle risorse disponibili dei governi e delle banche centrali.

E’ questo il motivo della preoccupazione relativa al rischio creditizio, pure se questo è di per sé di molto inferiore a quello connesso alla finanza strutturata, per la semplice ragione che anche solo i 268 miliardi di dollari di perdite nel segmento delle carte di credito previste dal Fondo Monetario Internazionale per le banche statunitensi potrebbe avere le conseguenze che ha un solo bicchiere di alcool per un etiliste all’ultimo stadio!

Purtroppo, l’ammontare di crediti alle famiglie e alle imprese che rischiano di divenire inesigibili per le banche che li hanno concessi in passato su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico è già a oggi di gran lunga superiore a quelli legati alle carte di credito.

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Nel lodevole intento di lanciare a operatori e investitori la buona novella del raggiungimento, o perlomeno dell’avvicinamento, del punto di minimo della lunga fase di meltdown immobiliare negli Stati Uniti d’America, quattro redattori dell’Associated Press hanno unito le loro forze e prodotto un interessantissimo articolo dall’eloquente titolo: “Welcome to the bottom: Housing begins slow rebound”, un testo che è una vera miniera di informazioni sulle tendenze del mercato immobiliare residenziale nelle diverse aree in cui si suddivide per convenzione la grande nazione americana, incluse indicazioni sulle variazioni delle vendite sia di case nuove che ‘usate’, i relativi prezzi mediani e i cosiddetti delinquency rates, quel non pagamento puntuale delle rate del mutuo che porta più o meno invariabilmente alla procedura di esproprio e successiva messa all’incanto della casa del debitore moroso.

Si tratta di un’interessantissima analisi di confronto tra i dati dello scorso mese di giugno e quelli di gennaio di quest’anno e del giugno 2008, introdotta dalla quantificazione in 4 mila miliardi di dollari del valore perso rispetto ai picchi toccati tra il 2005 e il 2006, cui rinvio volentieri i lettori interessati, anche perché, alla luce del tema oggetto di questa serie di puntate, mi limiterò a prendere in esame i dati relativi ai delinquency rates nelle diverse aree geografiche, uno dei dati che, peraltro, è caratterizzato da una variabilità molto più scarsa rispetto agli altri fenomeni presi in esame.

A solo titolo di memoria, vorrei ricordare che il segmento dei mutui immobiliari residenziali, sia quelli relativi all’acquisto che quelli di rifinanziamento, ammontava a circa 10,6 mila miliardi di dollari nell’agosto del 2008, un livello che dovrebbe essersi oggi un po’ eroso sia a causa del minore turn over che per la chiusura di milioni di procedure di foreclosure.

Pur non disponendo dei dati quantitativi che consentirebbero di giungere a una media ponderata del deliquency rates a livello nazionale, è certo che lo stesso non si pone a livelli inferiori all’11 per cento, visto che varia da un minimo del 10,4 nel Northeast a un massimo del 12,7 per cento nel South, mentre è dell’11,5 per cento nel Midwest e del 12,0 per cento nel West, anche se, ovviamente, prendendo in esame i singoli Stati o le Contee, la variabilità crescerebbe e di molto.

Allo stato delle cose emerge quindi una perdita lorda nell’ordine dei mille miliardi di dollari, una cifra cui andrebbero sottratte le somme realizzate mediante le vendite all’asta e aggiunte le spese relative alla procedura di foreclosure (tempo fa stimate in 50 mila dollari in media), ma il problema è rappresentato dal fatto che la perdita netta è largamente influenzata dalla pressione verso il basso dei prezzi dovuto al notevole peso delle procedure di asta sulle vendite complessive, un peso che in alcune zone è pari a un terzo, mentre in altre raggiunge e supera la metà.

Le perdite potenziali delle singole banche statunitensi dipendono largamente dalla specifica quota di mercato, nonché dalla ‘qualità’ di questa parte dell’attivo, due ordini di considerazioni che non fanno certo dormire sonni tranquilli ai vertici di Bank of America, che, dopo l’acquisizione di Countrywide, non solo ritrova a essere il primo operatore privato nel settore dei mutui, ma ha anche ereditato il frutto delle disinvolte pratiche dell’ex numero uno dell’acquisita, Angelo Mozilo, ma il problema tocca ovviamente tutte le maggiori banche statunitensi, banche che spesso ai loro guai hanno dovuto aggiungere quelli delle banche acquisite.
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Oltre ai mutui di propria pertinenza e al più o meno notevole carico derivante da quello che trovavano nelle banche che hanno acquisito in questi due anni di tempesta perfetta, la maggior parte delle banche statunitensi si trovò improvvisamente nei guai quando, pressoché contemporaneamente, fecero ricorso alla protezione della legge fallimentare alcune decine di finanziarie che, in base a stringenti e chiare previsioni contrattuali, avrebbero dovuto riprendersi i pacchetti di mutui da loro venduti alle banche di ogni ordine e grado, non solo statunitensi, nel caso che i delinquency rates avessero superato livelli incommensurabilmente meno elevati di quelli raggiunti nel giugno di quest’anno.

Ma quello di cui ancora non si parla molto è il crescente fenomeno di ritardo nei pagamenti dei mutui commerciali, un segmento che sfiora i 7 mila miliardi di dollari e che presenta un delinquency rate pari al 7 per cento dell’outstanding complessivo, poco meno di 500 miliardi di dollari, per una parte dei quali le banche non possono neanche rivalersi sul bene finanziato ma solo su un collaterale di non sempre facile esigibilità.

Come nel caso dei mutui residenziali, anche in quello dei mutui commerciali le prospettive non appaiono rosee in presenza del perdurante calo di attività economica e del previsto raggiungimento a breve della soglia psicologica del 10 per cento del tasso ufficiale di disoccupazione, elementi questi che non aiutano certo l’apertura di nuovi centri commerciali o di nuovi uffici, mentre non passa giorno che non vengano annunciate riduzioni di punti vendita, di uffici e stabilimenti industriali.

Non mi soffermerò sul problema delle sofferenze bancarie legate alla chiusura di aziende industriali e di servizi, un tema che ha visto l’opinione pubblica concentrata sulle eclatanti vicende legate ai due colossi dell’auto a stelle e strisce entrati, e per fortuna rapidamente usciti, dalla procedura fallimentare, ma che, purtroppo, riguarda tantissime aziende di medie e piccole dimensioni, anche se il rischio maggiore è legato a quelle imprese che sinora hanno retto in attesa di una ripresa che viene continuamente rinviata nel tempo.

Dietro le preoccupazioni del numero uno di Deutsche Bank e dei suoi colleghi operanti al di qua o al di là dell’Oceano Atlantico, in non pochi casi su entrambe le sponde e anche nel resto del mondo, non vi sono solo le prospettive dell’economia e del sistema bancario negli Stati Uniti d’America, in quanto, mutatis mutandis, il problema del crescente livello delle sofferenze bancarie sta togliendo il sonno anche ai banchieri europei, che, in aggiunta, hanno specifiche preoccupazioni relative all’esposizione nei confronti dei new comers dell’Unione europea e di altri paesi emergenti che, come è noto, sono sprovvisti delle garanzie governative previste negli altri paesi membri dell’Unione, così come negli USA, in Giappone e in numerosi altri paesi.