domenica 2 ottobre 2016

Ma cosa è davvero l'Arabia Saudita?


La notizia che il Congresso degli Stati Uniti d'America a larghissima maggioranza (70 voti contrari alla Camera dei Rappresentanti e solo uno al Senato) ha respinto il veto posto dal Presidente Barack Obama alla legge che prevedeva per i cittadini americani che hanno subito danni diretti o ai loro congiunti in occasione degli attentati messi in atto da commando di appartenenti ad Al Qaeda l'11 settembre del 2001 (composti da 19 cittadini sauditi su un totale di 20) la possibilità di agire direttamente in tribunali statunitensi contro il Regno dell'Arabia Saudita o suoi singoli cittadini, apre le porte ad un contenzioso di enormi dimensioni e che può rivalersi su un patrimonio stimato forse per difetto in quattromila miliardi di dollari per la gran parte riconducibili alla casa regnante che, come si sa, conta ottomila principi e un totale di decine di migliaia di membri.

Obama ha fatto di tutto, veto poi vanificato compreso, per evitare questo esito che può avere conseguenze pesantissime sui rapporti tra gli USA e il suo principale alleato tra i paesi arabi, un paese con grande influenza sull'intero scacchiere mediorientale, ma della cui totale lealtà non sono pochi a dubitare ed è per questo che ripropongo in questa giornata domenicale questa recente puntata del Diario della crisi finanziaria dedicata alla vera natura di questo Stato che, e questo è inoppugnabile, finanziò attraverso il principe posto a capo dei servizi segreti del Regno e con la benedizione degli Stati Uniti d'America Osama bin Laden quando lo stesso organizzò la vittoriosa guerra contro gli occupanti russi in Afghanistan e che, anche quando fondò la sua organizzazione terroristica non abbandonò la sua fede wahhabita salafita che è poi quella più influente, non fosse altro che è quella adottata dalla onnipotente famiglia reale, nel Regno Saudita.

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Ho avuto modo di notare che sia la stampa italiana che quella internazionale dedicano scarsa attenzione a quanto accade nel secondo paese arabo per estensione ma certamente uno dei primi per ricchezza, l'Arabia Saudita, uno stato popolato da 16 milioni di persone di cittadinanza saudita ai quali vanno aggiunti 9 milioni di immigrati regolari, dei quali quasi un terzo di origine asiatica, e ben 2 milioni di immigrati irregolari che, vista la struttura repressiva molto articolata esistente nel regno wahhabita, sono tollerati e lavorano in condizioni estremamente disagiate per salari inferiori a quelli riservati agli immigrati regolari; come è noto il petrolio rappresenta il 90 per cento delle esportazioni e il 70 per cento delle entrate statali e il Regno governa su un paese che possiede il 25 per cento delle riserve petrolifere accertate nel mondo ed è stato determinante nella costituzione dell'OPEC e nelle scelte che nel 1973 e nel 1979, noti come gli anni in cui si verificarono quella prima e seconda crisi petrolifera che misero letteralmente in ginocchio i paesi dell'Occidente industrializzato ma che portarono i proventi dei paesi esportatori a livelli stratosferici e che permisero agli stessi, o almeno ai più previdenti tra di loro, l'acquisizione di immobili e quote di aziende in tutto il mondo, ma in modo particolare negli Stati Uniti d'America.

Questo grande paese arabo è retto da una monarchia dinastica che domina in maniera assoluta sulla vita politica, sociale ed economica e non ha né una costituzione, rappresentata dal Corano e da disposizioni applicative molto restrittive dello stesso,  né un parlamento, mentre sono ammesse elezioni locali, la religione prevalente è quella mussulmana nella variante sunnita, ma con forte presenza di quella wahhabita quasi egemone nelle sfere del potere e con un seguito di quattro milioni di persone, mentre gli sciti, che sono circa un sesto della popolazioni e risiedono in una zona circoscritta del Paese, sono tollerati ma certamente non amati dai wahhabiti, mentre sono vietate le edificazioni di luoghi di culto di altre religioni, mentre esiste un corpo speciale, simile ai pasdaran iraniani incaricato di vegliare sul fatto che le rigide prescrizioni religiose vengano applicate con pene che vanno dalla fustigazione al carcere e, nei casi più gravi alla pubblica decapitazione, insomma una situazione che ricorda molto da vicino quello che accade nelle zone, oggi per fortuna meno ampie di un recente passato, governate dai miliziani dell'ISIS, certamente più feroci e sanguinari, ma anche loro di fede sunnita condita però fa regole molto più rigide di quelle vigenti in altri paesi dove è dominante quella fede e sono proprio queste regole e questo modo di agire che ricordano molto da vicino quelle della variante wahhabita.

Dal punto di vista economico, le grandi acquisizioni all'estero e il dividendo petrolifero non distribuito alla popolazione fanno vivere alla casa reale saudita con minore, ma certamente non assente, preoccupazione il vero e proprio crollo del prezzo del petrolio dai mai più toccati 147 dollari al barile registrati, grazie anche alle manovre speculative delle grandi banche globali, a quei livelli prossimi ai 100 dollari che consentivano ancora ampli margini di profitto ai paesi produttori, ai livelli odierni di poco superiori ai 40 dollari che, a mio parere, sono ancora significativamente sovrastimati rispetto al vero e languente stato della domanda mondiale di greggio, una situazione rispetto alla quale non c'è accordo, ultimo quello tra la Russia di Putin e la casa reale saudita appunto, che possa funzionare, a meno di ridurre in modo drastico l'offerta, cosa che gli altri paesi esportatori, in primis Iran e Venezuela, non hanno la benché minima intenzione di fare, ma in realtà non ne hanno intenzione neanche la stessa Russia e men che meno il regno saudita.

E' in questo quadro di difficoltà economiche, una situazione che ha visto il reddito procapite saudita ridursi di un terzo e aumentare le spinte verso un maggiore impegno dei cittadini sauditi verso quelle attività economiche che normalmente snobbano grazie alla loro rendita di posizione, che è caduta come una mannaia la decisione dei due rami del Congresso statunitense di varare una legge che consente ai cittadini statunitensi di adire ai tribunali americani per intentare causa all'Arabia Saudita per i danni subiti nel corso degli attentati dell'11 settembre del 2001, dirottamenti di aerei compiuti da militanti di Al Qaeda e che furono messi in atto da 19 cittadini sauditi su un totale di 22 dirottatori, così come risultò sin dall'epoca che alcuni degli attentatori venivano finanziati direttamente da altissimi membri della casa reale. In ambienti bene informati si dice che il presidente Obama porrà il veto alla legge, anche se non è certo che spinga a farlo in piena campagna elettorale.

Fin qui, o almeno questo penseranno i miei lettori più smaliziati, in particolare quei circa duecento visitatori statunitensi che quotidianamente visitano il blog, c'è poco di nuovo e, tranne qualche collegamento derivante dal mio status di tenutario del diario di bordo delle varie fasi della Tempesta Perfetta, buona parte delle notizie le potreste trarre da Wikipedia, ma a me servivano come premessa a quello che cercherò di dire di seguito con tutte le cautele del caso, perché quello del vero ruolo del regno saudita, o meglio di una parte di esso, nelle recenti vicende che si stanno susseguendo nello scacchiere mediorientale è un qualcosa  nel quale sovviene soltanto il fiuto dell'analista in assenza della pistola fumante.

Lasciando ai teorici più o meno preparati delle svariate e a volte strampalate tesi del complotto e che vedono un ruolo dei sauditi nell'operato dell'organizzazione allora guidata da Osama Bin Laden e dell'azione più efferata compiuta da quella stessa organizzazione e cioè gli attacchi dell'11 settembre 2001, è interessante capire cosa succede in Irak al termine del conflitto contro il regime di Saddam Hussein, quando gli Stati Uniti d'America decidono due cose: lo scioglimento dell'esercito iracheno, notoriamente a maggioranza sunnita, e l'affidamento della carica di capo del Governo ad un esponente della minoritaria ma molto agguerrita componente scita, mentre, d'altra parte, l'Occidente tutto chiude non uno ma entrambi gli occhi su un regime sostanzialmente laico ma profondamente corrotto esistente in Siria, governato, ma non con la stessa dittatoriale determinazione dal giovane Assad, uno che a vederlo sembra uscito da studi a Cambridge o a Oxford, con una moglie per niente velata e con un esercito più volte sospettato di essere implicato nel traffico di droga proveniente da quell'Afganistan controllato in larga parte da americani e alleati ma che poco o nulla fanno per sdradicare le ampie coltivazioni delle pianta da cui si ricava l'oppio.

Come hanno reagito gli stati arabi a questi che sono stati considerati due errori esiziali dell'allora amministrazione di Bush Jr nella già di per sé ribollente area mediorientale e come hanno reagito alle cosiddette primavere arabe è facile intuirlo, ma quella che è una prova indiretta è fornita dal fatto che un esercito stimato dalla CIA in non più di tremila effettivi è riuscito in poco tempo a conquistare, come un coltello che affonda nel burro, buona parte delle zone sunnite dell'Irak e, incrociandosi con le forze dell'opposizione ad Assad, una parte molto rilevante del territorio siriano, una situazione che solo negli ultimi tempi, grazie all'intervento degli USA e della Russia, sta sensibilmente cambiando, ma fino a che non vi sarà vera consapevolezza delle vere cause di quanto è accaduto in questi anni si rimanderà soltanto il problema.

Non voglio assolutamente dire che dietro il movimento jihadista ci sia questo o quello Stato della regione, ma che la variante molto rigida del sunnismo imperante in Arabia Saudita ma presente in movimenti esistenti in altri paesi arabi è, seppur con qualche sfumatura ancora più radicale, quella che il califfato vuole imporre nei territori che conquista.

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