venerdì 28 ottobre 2016

Ma cosa esporta la Gran Bretagna?


Siamo alle solite: lo sforzo corale degli analisti operanti al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico sembra, a partire da quel 24 giugno nel quale gli abitanti dell'Unione europea e quelli del resto del mondo scoprirono con relativa sorpresa che il 52 per cento degli elettori aveva scelto il Leave (mentre il 48 per cento aveva optato per il Remain), quello di dire che Brexit o non Brexit (o, come direbbe la nuova Lady d'alluminio britannica, Brexit is Brexit), l'economia del regno Unito non avrebbe avuto a soffrirne, come fanno anche ora che la crescita del prodotto interno lordo nel terzo trimestre è scesa "solo" dello 0,2 per cento, passando dal +0,7 del secondo trimestre al +0,5 attuale, una frenata di poco meno di un terzo della crescita in un periodo, quello estivo, notoriamente favorevole per l'andamento dell'economia del regno di Sua Maestà britannica Elisabetta Seconda che, novanta anni suonati e lungamente festeggiati, proprio non vuole sapere di cedere lo scettro al povero Carlo, Prince of Wales, che oramai sembra quasi più vecchio di lei e del suo augusto consorte, entrambi notoriamente di nobile discendenza germanica.

Eppure, i lettori più assidui e affezionati del Diario della crisi finanziaria sanno bene che ho dedicato diverse puntate a dire che gli ottimisti sull'esito della Brexit spendevano energie degne di miglior causa, ma che, e forse soprattutto, le previsioni del Governo di Sua Maestà e della Confindustria di quella che un tempo veniva definita Albione, o perfida come aggiungeva qualcun altro, sui danni ingenti e non transitori che la più che prevedibile Brexit avrebbe portato a quel civilissimo anche se un po' sfaticato popolo, che senza i tre milioni di immigrati comunitari e non so quanti provenienti dal Commonwealth starebbe alla frutta, avrebbero portato, in serie, ad una radicale svalutazione del GB Pound, ad una crescita rilevante dei prezzi al consumo e all'ingrosso e ad una possibile fuoriuscita di banche di ogni ordine e dimensione alla ricerca di molto salvifico passaporto europeo abilitante ad operare liberamente nel Vecchio Continente nonché nel resto del mondo!

Sarà perché sono da sempre un analista fondamentale e che sono un cambista di adozione avendo svolto le mansioni un po' perigliose di economista della sala cambi di una un tempo importante e primaria banca italiana, ebbene devo dire che la dimensione della svalutazione istantanea, e salvo qualche breve fase di surplace, avvenuta già nella notte dei conteggi elettorali, mi ha sorpreso, non prevedendo certo che, nei confronti del dollaro, saremmo andati indietro di un trentennio, a quella fase di sconquasso nello SME che vide la valuta britannica costretta a svalutare in tandem con la lira italiana, sotto i colpi martellanti di una speculazione che sarà pure stata capitanata dal Corsaro George Soros e dai suoi compagni della filibusta, ma anche una drastica svalutazione che tranne qualche zero virgola ci stava proprio tutta.

Allora, nei giorni appena successivi a quelli in cui si è appena svolto il primo Consiglio dei capi di Stato e di Governo dei 28 paesi membri dell'Unione europea e il primo cui ha partecipato Theresa May come nuova inquilina di Downing Street, ci si rende conto, una volta di più, dell'assoluta impreparazione del Regno Unito di fronte al difficilissimo e lunghissimo negoziato per stabilire i termini dell'uscita dalla UE, ma vi è la sorpresa relativa al fatto che il negoziato in materia di libero scambio brillantemente conclusosi con il Canada è bloccato dall'opposizione della Vallonia, parte dello Stato federale del Belgio (questione poi risolta in piena zona Cesarina nella giornata di ieri, ma intanto la firma ufficiale dell'accordo è, almeno per ora, saltata, con grande scorno delle rispettive diplomazie!).

Un quadro poco roseo e dal quale si capisce, quindi, che la stessa ratifica a fine 2019 o ad inizio del 2020 del trattato che regolerà gli scambi tra United Kingdom e la UE non può da nessuno essere data per scontata, ma vi è di più, perché una battagliera imprenditrice inglese sta bloccando davanti all'Alta Corte di Londra il Governo di Sua Maestà sulla non secondaria questione circa il fatto di capire se l'attivazione dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona può essere liberamente ed autonomamente fatta dal nuovo Governo britannico o se, come sostiene a suon di precedenti self explaining la ricorrente, debba passare per un voto delle due Camere di cui si compone il molto originale Parlamento inglese, con la Camera dei Lord già schierata per la bocciatura della automatica operatività dell'esito di un  referendum che è visto come infausto dalla maggioranza della prima linea della nobiltà britannica.

Ma venendo finalmente alla questione degli eventuali effetti benefici della svalutazione del Great British Pound sulla alquanto disastrata bilancia commerciale britannica che, nell'ultimo dato che ho trovato e relativo al 2014, segnava un passivo di 191 miliardi di dollari, disavanzo dato da esportazioni per 472 miliardi e importazioni per 663 miliardi, e che segnalano un sostanziale pareggio nel settore automobilistico, primo sia per importazioni che per esportazioni con importi che si discostano di non molto tra di loro, mentre la stessa cosa non vale per le due voci che riguardano il greggio e il petrolio raffinata, dove la differenza tra l'export di un paese che pure è un non marginale produttore di petrolio come la Gran Bretagna e l'import balla un po' paradossalmente per qualcosa come 15 miliardi di dollari in favore dell'import, ma il problema in questo caso, come per l'oro che rappresenta la seconda voce dell'export, è dato dal fatto che la valuta di scambio utilizzata, con grave scorno delle residue ambizioni imperiali del popolo britannico è tuttora il dollaro statunitense e non certo la sterlina.  Seguono i medicinali, le turbine a gas e, per percentuali minori, altri settori merceologici e produttivi.

Altro e ben più complesso discorso sarebbe quello della nazionalità effettiva delle imprese di tutti i settori considerati e di quello ben più significativo rappresentato da banche e finanza che rappresentano da sole il quindici per cento circa del prodotto interno lordo britannico, ma, pur premettendo che se ne vedrebbero delle belle, si tratta di una questione che affronterò in un futuro molto prossimo, essendo questo un argomento in grado di gettare un faro sulle scelte prossime venture di una parte significativa di banche e imprese in materia di ubicazione della propria sede legale.

Non vi è dubbio che un effetto della massiccia svalutazione valutaria sull'export vi sarà, così come appare scontata la spinta all'incremento dei prezzi all'importazione derivante dalla stessa variazione negativa della sterlina, un movimento che finirà inevitabilmente per incidere (al netto delle scelte delle maggiori catene distributive legate al consumo finale che potrebbero decidere di accollarsi, su base si intende temporanea, tutta o parte la variazione negativa della sterlina sui prezzi finali di beni e sevizi di importazione)  sulla borsa della spesa del bravo e onesto suddito di Sua Maestà, a prescindere ovviamente da come abbia votato nella fatidica giornata del 23 giugno di quest'anno di disgrazia 2016!

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