mercoledì 26 ottobre 2016

Perché Jamie Dimon (JPM) ha vinto in Monte dei Paschi di Siena!


Quando un bravo giornalista di un importante quotidiano riuscì a parlare con il da poco ex amministratore delegato ed ex direttore generale del molto malmesso gruppo creditizio Monte dei Paschi di Siena, Fabrizio Viola, credeva probabilmente di trovarsi di fronte un uomo vinto ed abbattuto e, invece, ebbe la sorpresa di parlare con una persona felice di raccontare la sua verità su quei quattro anni a Rocca Salimbeni, con le soddisfazioni e le amarezze che porta il prendere in mano un dossier pesante e addirittura grondante del sangue di una delle persone al vertice della banca andato incontro giovanissimo  ad una fine ancor oggi misteriosa ma dove tutto sembra escludere la frettolosa tesi iniziale del suicidio, un impegno che Viola ha affrontato con lo stesso coraggio e la stessa determinazione dimostrate alla Banca Popolare di Milano, quella dove operava un gruppo di potere trasversale che un magistrato inquirente ebbe a definire la Cupola, e che spinse, senza troppi riguardi l'allora giovane banchiere dritto, dritto all'uscita; mentre per il futuro del banchiere ebbe l'altrettanta sorpresa di scoprire che aveva appena rifiutato impegni al vertice di altre banche e stava meditando su un suo impegno al di fuori di quel settore creditizio che gli aveva dato tante gioie, ma anche tante amarezze.

Il bravo cronista, interessato più  agli avvenimenti più recenti che agli scontati profumi di massoneria e altri gruppi di potere sprigionati dalle due Rocche intorno alle quali ha ruotato dal 27 febbraio 1472 il sistema di potere in quel di Siena, usò uno dei trucchi del mestiere, mettendo in bocca ad altri, consiglieri di amministrazione della banca, persone vicine al dossier e chi più ne ha ne metta, la chiara e netta ricostruzione degli avvenimenti di quell'inizio di settembre di questo anno di disgrazia 2016, nel quale il banchiere romano ricevette la telefonata di un ministro della Repubblica e primo azionista della banca con il 4 per cento delle azioni, una breve conversazione nella quale il ministro, in buona sostanza, lo invitava di farsi da parte, sostenendo, inoltre, di parlare a nome di tutto l'Esecutivo, una telefonata che confermava in Viola quella sensazione di isolamento durata tutta l'estate nel corso della sua estenuante opera di interdizione delle pretese avanzate dagli uomini di J.P. Morgan, advisor, insieme a Mediobanca e Banca Lazard, dell'aumento di capitale e della rottamazione di ben 27 miliardi e rotti di euro di sofferenze lorde destinate, sin dall'inizio e con il consenso del Governo, ad essere smaltite dal Fondo Atlante, o, meglio, dal suo clone Atlante 2 da poco costituito e avente proprio questa unica mission.

Ma quale era, o meglio quali erano, la/e materia/e del contendere tra i bruschi emissari di Sua Eminenza Jamie Dixon e il banchiere romano che, prima di MPS, è stato alla guida di diverse banche, BPM, come si è visto, compresa? Ebbene, sono presto detti: in primo luogo, Viola aveva rimandato al mittente la proposta alquanto oscena di slegare i compensi per i tre advisor dal risultato, il che, detto in soldoni, significava che le tre banche d'affari, JPM è qualcosa di diverso e di più ma in questa situazione si muoveva come le altre due banche partner che, inoltre, lasciavano alla banca USA il ruolo di interlocuzione con il Top Management di MPS, avrebbero ricevuto la loro corposa percentuale, si parla di tanti, ma tanti soldi, anche se non avessero portato nemmeno un investitore interessato a partecipare all'aumento di capitale della banca senese, il che era drammaticamente vero a fine agosto o, almeno, lo era e un po' volutamente, prima della visita non a sorpresa dello stesso Dimon ai palazzi del potere romani, una serie di abboccamenti che spazzavano via tutti i dubbi residui dei nostri governanti e li convincevano che Fabrizio Viola era un ostacolo sul percorso di risanamento della più antica banca italiana, quella sulla quale non era e non è politicamente accettabile fallire.

In secondo luogo, i tre advisor, sempre per bocca degli emissari di JPM, chiedevano che l'aumento di capitale, non importa che sia di tre o di cinque miliardi, dovesse essere effettuato attraverso la sottoscrizione di accordi di pre underwriting da parte dei soggetti istituzionali interessati, una strada che escludeva di per sé in tutto o in larga misura il fastidioso diritto di opzione in capo agli attuali azionisti, quelli, per intenderci, che in buona parte hanno in carico le azioni di MPS a diversi euro e che, fino al rimbalzo delle sedute scorse, vedevano il valore dell'azione scendere pericolosamente nell'area dei sedici centesimi. (ma il piano eliminerà questo spettacolo osceno accorpando 100 vecchie azioni "leggere" in un'azione "pesante" e molto più gradevole da vedere, anche se dematerializzata era e dematerializzata rimane!) Ai detentori di azioni della banca senese non sarebbe rimasto altro che assistere impotenti all'ulteriore ed estrema diluizione del valore della carta straccia gelosamente custodita per anni.

In terzo luogo, JPM e le sue auguste sorelle chiedevano a Viola che a partecipare al bottino delle sofferenze lorde non fosse soltanto il Fondo Atlante ma che potessero partecipare anche altri soggetti italiani, ma soprattutto internazionali, attirati dalla possibilità di realizzare plusvalenze cospicue tra il presumibile valore di realizzo delle cessioni (fissato nel Piano al 33 per cento del valore nominale di crediti più interessi)  e quello che queste entità un po' vampire avrebbero potuto ricavarne grazie alla loro indubbia expertise ed ai loro metodi alquanto discutibili. 

C'era poi il discorso relativo ai tempi, perché Viola voleva fare tutto in un colpo solo, e anche prima della data di quel giudizio finale per il Governo italiano che è il referendum costituzionale, approfittando della benevolenza europea verso un'eventuale garanzia pubblica, benevolenza che potrebbe non durare nell'arco temporale fino alla fine del 2018 offerto dalla Vigilanza della Banca Centrale Europe.

Ma il Fondo Atlante si deve essere accorto dei riflessi sull'esclusiva che aveva ricevuto sia dal Governo che dagli organismi di vertice del Monte dei Paschi di Siena e del clima di incertezza post Viola, perché si è affrettato a concludere l'accordo sulla prima tranche di sofferenze lorde fissando anche il prezzo a 1,6 miliardi di euro, pari, appunto a quel 33 per cento del valore nominale dei crediti ceduti da MPS e che sembra non valorizzare le garanzie reale e personali che assistono buona parte di questi crediti in sofferenza.

Solo una lettura completa del piano industriale (approvato dopo una riunione troppo lunga per poter dire che tutto è filato liscio per Morelli, anche perché su lui e gli altri consiglieri vi sono troppe attenzioni per compiere passi falsi, per non parlare del fatto che quello su cui tutti i giornali scriveranno non è altro che un ampio e ben fatto comunicato stampa) potrà farci capire quante delle condizioni posti da JPM e dalle sue sorelle siano state accolte, mentre per confermare l'esclusione totale o parziale del diritto di opzione in capo agli attuali azionisti, Tesoro dello Stato italiano compreso, così come per la spartizione del bottino delle sofferenze bastano e avanzano i lanci, molto ispirati, di agenzia, mentre per quanto riguarda i tempi, è confermato che il tutto è destinato a concludersi entro l'anno!

Ovviamente, assistiamo ad un forte appesantimento del conto economico di MPS, con un utile dei nove mesi informe sofferenza, dopo l'utile registrato dalla banca senese, nei primi sei mesi, ma, soprattutto, in vista di un chimerico utile di 1,1 miliardi nel 2019 (nel 2023 come diceva la celebre canzone italiana), mentre per l'anno di disgrazia 2016, che sarà gravato dalle perdite integrali relative alle cessioni delle sofferenze, il rosso sforerà i 5 miliardi di euro (4,83, per la precisione).

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