venerdì 16 ottobre 2009

Il trading spinge l'utile delle banche USA!


Dopo i risultati di J.P. Morgan Chase, sono giunti anche quelli di Goldman Sachs e di Citigroup, risultati in apparenza positivi, ma che, come nel caso della banca dei nipotini di J.P Morgan e di Rockefeller, richiedono qualche approfondimento per riuscire a comprendere quale è la relazione tra il non positivo stato dell’economia e i profitti delle banche.

Non stupisce il risultato della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, che ha chiuso il terzo trimestre con un utile da 3,03 miliardi di dollari che è circa il triplo di quello conseguito nello stesso trimestre del 2008, ma si pone nettamente al di sotto delle attese degli analisti che prevedevano un utile da 4 miliardi in gran parte generato dai successi della banca nel settore che le è più congeniale e che è rappresentato dalle ‘scommesse’ su tutto quanto è trattato nei mercati regolamentati.

Come è noto, questo tipo di gioco ha visto un netto calo dei partecipanti di grandi dimensioni, che dovrebbero essere non più di cinque banche globali dopo la riduzione delle maggiori Investment Banks statunitensi da cinque a due e la recente decisione di Citigroup di cedere, anche per pressioni governative, la sua divisione attiva nel trading sul petrolio a una compagnia petrolifera per un piatto di lenticchie.

E’ evidente che la presenza di un numero così ridotto di grandi operatori non rende più trasparente un mercato, come quello dei derivati, che già di per sé trasparente non lo è mai stato molto, così come non è un caso che il petrolio venga trattato a valori che sono ben lungi dal rappresentare l’equilibrio tra domanda e offerta.

Così come non è un caso se proprio oggi sia passata in una commissione del Congresso statunitense una prima proposta di regolamentazione del mercato dei derivati, anche perché è del tutto evidente che ulteriori rialzi del prezzo del petrolio rischierebbero seriamente di gelare quelli che, al momento, continuano a essere poco più che indizi di ripresa.

Dopo una lunga serie di trimestri in rosso, Citigroup è riuscita a tornare a un utile di poco più di 100 milioni di dollari, un risultato che si trasforma in una perdita superiore ai 3 miliardi di dollari tenendo conto di quanto dovuto alle preferred shares e della recente operazione sul capitale che ha portato il Governo statunitense a possedere il 34 per cento delle azioni del colosso bancario, una partecipazione ingombrante e della quale il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, vuole liberarsi al più presto.

Ma i problemi di Citigroup come di tutte le maggiori banche statunitensi sono legati alla continua emorragia legata alle perdite sui crediti vantati nei confronti della clientela e che sono state pari nel terzo trimestre a 8 miliardi di dollari, in frazionale miglioramento dagli 8,4 miliardi segnalati nel secondo trimestre e che ha costretto il Chief Executive Officer di Citi, Vikram Pandit, ad ammettere che le cose non sono destinate a migliorare nel prossimo futuro.

Non vi è dubbio che questa stridente dicotomia tra le attività di Corporate & Investment Banking e quelle legate all’attività bancaria tradizionale sono destinate a fare accelerare i progetti dei governi e delle banche centrali in materia di regolamentazione dei mercati finanziari, anche perché nessuno ha voglia di assistere alla creazione di una nuova bolla speculativa!