L’andamento positivo dei mercati azionari è stato favorito, sia ieri che oggi, dal dato superiore alle attese dell’ISM relativo al settore dei servizi in settembre e da un report di Goldman Sachs che suggerisce di acquistare azioni delle grandi banche statunitensi, un’indicazione che ha spinto ieri in deciso rialzo l’intero indice finanziario.
Non credo che nessuno dei lettori del Diario della crisi finanziaria conosca il nome del Governatore della banca centrale australiana, eppure Glenn Stevens rischia di passare alla storia della tempesta perfetta per essere stato il primo banchiere centrale a credere talmente nella ripresa da osare un rialzo dei tassi di interesse, che è esattamente quello che ha fatto oggi portando il tasso ufficiale più in alto di un quarto di punto percentuale, dal 3 al 3,25 per cento.
Non so se Bernspan, Trichet o King, rispettivamente a capo della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea e della Bank of England, abbiano in animo di seguire l’esempio del loro collega australiano, anche se credo proprio che continueranno a lasciare i tassi ai livelli minimi cui attualmente si trovano almeno sino alla fine dell’anno in corso.
Devono pensarla così anche gli investitori, perché gli indici europei non sembrano essere stati influenzati dalla notizia di questo primo rialzo dei tassi di interesse e continuano a restare in territorio positivo, in linea con l’andamento di ieri di Wall Street e delle positive chiusure delle borse asiatiche stamane.
Comunque, quello giunto dall’Australia è un segnale importante, anche se è legato a una situazione ben diversa da quella che si registra negli Stati Uniti d’America o in Europa, in particolare sul fronte dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, ferma in Australia al di sotto del 6 per cento, mentre è oramai a un passo dalla soglia psicologica del 10 per cento sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico.
Ma quello che rende davvero diversa la situazione australiana da quella statunitense ed europea è la condizione dei rispettivi mercati finanziari, in quanto le due aree economiche principali del pianeta continuano a essere gravate da una montagna di titoli più o meno tossici e da una marea crescente di crediti problematici, immobilizzazioni estremamente pesanti e che risentirebbero negativamente di un inasprimento dei tassi.
Il nodo più intricato resta quello dello smaltimento dei titoli ancora in carico alle banche e alle altre entità protagoniste del mercato finanziario, anche perché, in perfetta analogia con i ripetuti tentativi fatti dal suo predecessore Paulson, anche il programma messo in campo dal nuovo ministro del Tesoro statunitense, Timothy Geithner, rischia di produrre risultati estremamente modesti, non essendo riuscito a mobilitare nemmeno un ventesimo della somma inizialmente prevista e che era pari a mille miliardi di dollari.
Le immobilizzazioni in titoli e in crediti problematici sono in larga misura alla base del razionamento dell’offerta di credito a famiglie e imprese, un credit crunch che sta minacciando la ripresa e che mette i banchieri centrali in una condizione di non completa autonomia nella determinazione della politica monetaria.