L’annuncio di un deficit statunitense per l’anno fiscale che si è chiuso al 30 settembre pari a 1.420 miliardi di dollari ha indotto Bernspan a fare la voce grossa e a dichiarare in una conferenza che è necessario al più presto riportare i conti dell’America a livelli di rosso meno intensi e più in linea con quelli dell’anno fiscale precedente che si erano chiusi con un deficit di ‘appena’ 459 miliardi di dollari, un auspicio che difficilmente, come lo stesso numero uno della Fed ben sa, potrà trovare riscontro nei difficilissimi mesi a venire.
Molto difficilmente, infatti, sarà possibile chiudere in fretta i cordoni della borsa con il tasso di disoccupazione ufficiale prossimo al 10 per cento e con la necessità di spingere in qualsiasi modo il riavvio dell’attività produttiva, anche perché, nel frattempo, la capacità utilizzata continua a mantenersi su livelli molto, ma molto bassi.
Ma in un mondo che oramai appare dominato dal G2 composto da Stati Uniti e Cina, il numero uno del sistema della riserva federale, non ha dimenticato di lanciare un monito ai governanti cinesi, ma anche ai governanti di altri paesi asiatici in surplus negli scambi commerciali, affinché stimolino i consumi dei loro concittadini, un passaggio indispensabile per contrastare la contrazione del commercio mondiale.
Ma perché da questi nuovi comportamenti dei consumatori asiatici possa venire uno stimolo all’economia americana è necessario che prosegua quella politica del dollaro debole che ha ricevuto la sua benedizione nell’incontro tra le due grandi potenze che si è svolto in apertura del summit del G20, una politica che è destinata a ricadere alquanto fatalmente sulle spalle dell’Europa e del Giappone, via rivalutazione forzata dell’euro e dello yen e conseguente riduzione degli avanzi commerciali .
Dopo la pausa di venerdì, i mercati azionari sono tornati a salire sulla scia di buoni risultati aziendali, ma soprattutto sull’onda della convinzione che il peggio della tempesta perfetta sia oramai alle spalle, anche se i risultati delle banche a stelle e strisce nel terzo trimestre stiano lì a dimostrare che non vi è alcun rallentamento nei default di individui e imprese, ben espressi dagli accantonamenti e le messe a perdita presenti in tutti i bilanci sinora presentati, fatta eccezione della sola Goldman Sachs.
Il finanziere Carl Icahn ha proposto al CIT Group un prestito di 6 miliardi di dollari che dovrebbe consentire alla banca specializzata nei finanziamenti alle strutture commerciali di non dover dipendere dall’accettazione del piano di conversione di bond in azioni da parte dei bondholders, ma ritratta di un’offerta condita da pesanti accuse all’attuale management di CIT per aver operato una disparità di trattamento tra grandi e piccoli creditori e di aver fornito una rappresentazione al ribasso della società.
Il trucco nell’offerta di Icahn, un personaggio che non ha proprio la fama di un santo, sta nel prevedere uno scambio alla pari tra il debito esistente e il suo finanziamento, un’opzione che non consente quella riduzione del debito che è fondamentale per la sopravvivenza di CIT e che era prevista nel piano presentato dagli attuali vertici, un piano che prevede una riduzione del peso del debito per 5,7 miliardi di dollari e che, non a caso, il finanziere ha chiesto ai bondholders di respingere.