domenica 10 febbraio 2008

Draghi e il G7 naufragano nella tempesta perfetta


Il sincero rispetto per l’alto profilo professionale e morale del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, non mi esime dall’esprimere la profonda delusione per l’ennesima occasione mancata verificatasi nel corso dei lavori del G7 in corso nel fine settimana a Tokyo e nel quale Draghi, nella sua veste di presidente del Financial Stability Forum (FSF), ha tenuto la prevista relazione intermedia sulle cause e gli effetti della attuale crisi finanziaria, ma, soprattutto, sulle prime misure da adottare per contrastare la più grave crisi di fiducia degli investitori nei confronti dei comportamenti dei principali protagonisti del mercato finanziario globale mai verificatasi dal secondo dopoguerra.

Attingendo, ovviamente, alle sole fonti informative pubbliche, siti specializzati, versioni on line dei quotidiani europei e statunitensi e articoli di stampa, e non disponendo, come la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta, del testo riservato ai governatori e ai ministri finanziari del ristretto consesso dei paesi maggiormente industrializzati, mi scuso in anticipo con il Governatore per i commenti basati esclusivamente su di una informazione indiretta e certamente lacunosa, ma l’esperienza pluridecennale in materia di comportamenti delle donne e degli uomini più potenti in materia economica mi consente spesso di capire se c’è l’arrosto oltre il fumo e le cortine fumogene.

Cosa è emerso da questa riunione tanto attesa dagli operatori, gli investitori e gli analisti di tutto il mondo? Praticamente il nulla più assoluto, un niente di fatto che, come sempre accade, è stato rivelato dalla bozza provvisoria redatta dai superspecializzati sherpa degli autorevoli convenuti, bozza che raramente si discosta dal vero e proprio documento finale e che è stata diffusa prima che gli invitati si sedessero a tavola, nel banchetto che solitamente precede l’inizio, si fa ovviamente per dire, dei lavori.

Avendo come unico e comprensibile fine quello di tranquillizzare i mercati, è emersa, per bocca del super ministro dell’Economia statunitense, Henry Paulson, un’analisi al cloroformio sulle prospettive della crescita (sì, avete capito bene, l’ineffabile ex numero uno di Goldman Sachs parla di crescita) dell’economia americana nel 2008, anche se “solo” dell’1,5 per cento, contro la precedente previsione del 2,2 per cento, un rallentamento di circa un terzo dell’espansione dell’economia più potente del mondo che produrrebbe evidenti effetti sulle economie dei paesi esportatori, effetti comunque di gran lunga inferiori a quelli impliciti in uno scenario recessivo, in particolare se la recessione avesse come causa ed effetto le turbolenze, o qualcosa di peggio, dei mercati finanziari.

L’unica novità, se non ne avesse già parlato diffusamente nei giorni scorsi, nel discorso di Paulson, è il fermo invito, ripreso dai rappresentanti degli altri sei paesi presenti, ai suoi colleghi (una volta banchiere, sempre banchiere, se mi consentite la parafrasi) a dire tutta, ma proprio tutta, la verità sullo stato delle banche, delle compagnie di assicurazione, in particolare di quelle monoline, e di quella miriade di entità di ogni ordine e grado che popolano il fantastico mondo della finanza, senza mai dimenticare l’esaltante, almeno sino a poco fa, variante della finanza strutturata.

Caro Henry, se si sbaglia l’analisi, difficilmente si azzeccano i rimedi e le terapie, anche se devo dire che Ella è in ottima compagnia, una compagnia che non è solo rappresentata dai suoi attuali commensali, in fondo, come Lei giustificati dagli obblighi del vostro difficile e certo non invidiabile ruolo, ma da un’orda alquanto starnazzante di esperti, super esperti, economisti di rango (per fortuna raramente insigniti del Nobel), giornalisti più o meno embedded, politicanti di ogni risma e chi più ne ha ne metta, anche se mi permetto di suggerirle sommessamente che non sempre l’unione, per quanto di un gruppo così folto, fa la forza.

Mi dispiace veramente che a questa schiera così autosufficiente, si sia di recente unito anche il quotidiano Il Manifesto, alla cui redazione economica ho, peraltro, collaborato quasi quotidianamente dal 1986 al 1989 (per mia fortuna, ciò è avvenuto poco dopo la non altrettanto assidua collaborazione dell’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti), che, nella copertina del numero in edicola oggi, vede campeggiare il titolo Subeconomy, con esplicito riferimento al problema dei mutui sub prime statunitensi, evidentemente visti dal quotidiano che ancora si definisce comunista alla base di tutti i mali e certamente la vera causa dell’attuale tempesta perfetta.

Paulson, Draghi e compagnia cantante farebbero bene a fornire una semplice risposta all’altrettanto semplice quesito che pongo, quasi fosse un mantra salvifico, da oltre cinque mesi: come fanno i circa 700 miliardi di dollari di subprime, con i loro default complessivi che ancor oggi si aggirano per difetto intorno ad 1 miliardo, sempre di dollari, ad aver messo in ginocchio le maggiori banche del mondo, le compagnie monoline, letteralmente distrutto la reputazione delle tre maggiori agenzie di rating del pianeta, aver richiesto iniezioni di liquidità fino a 500 miliardi di dollari in un solo giorno su quello che era un tempo lo scintillante e super efficiente mercato interbancario?

Non sarà, invece, che il problema è rappresentato dall’espansione incontrollata della finanza strutturata, una crescita esponenziale partorita dalle fabbriche prodotto delle divisioni Corporate & Investment Banking delle maggiori banche globali, nonché dal disinvolto operare nello stesso campo delle divisioni finanza delle un tempo così accorte compagnie di assicurazioni, dei palesi conflitti di interesse delle agenzie di rating che fra breve, se il giocattolo non si fosse rotto, avrebbero guadagnato più dall’attività di consulenza in favore degli emittenti che da quelle derivanti dal loro core business, da quel girare letteralmente la testa dall’altra parte che ha caratterizzato gli autorevoli convitati del G7 di Tokyo ed i loro altrettanto autorevoli predecessori?

Scusandomi in anticipo per la foga polemica che pervade le righe sopra riportate (anche se ritengo francamente che, a sei mesi esatti dal meltdown del mercato interbancario nell’area euro e nel resto del mondo, meritassimo qualcosa di diverso da questo mare di sciocchezze pronunciate in smoking per gli uomini ed in abito da sera per le poche signore che non sono in Giappone in qualità di mogli), ritengo che, oltre a risposte chiare a quelle che stanno ogni giorno che passa diventando domande retoriche, i potenti dell’economia e della finanza mondiale dovrebbero chiarire cosa intendono fare per ridare credibilità e ripristinare la fiducia nei confronti di quel mare magnum di titoli della finanza più o meno strutturata, credibilità e fiducia che non sono un optional dopo gli eventi del passato e le magagne emerse nel presente, anche perché parliamo di volumi di bond che, secondo i dati forniti dalla Securities Industries and Financial Markets Association di new York, si aggirano sui 25.000 miliardi di dollari, un ammontare quasi 40 volte superiore a quello dei tanto vituperati sub prime.

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