mercoledì 6 febbraio 2008

Allacciate le cinture di sicurezza (4)


Come recita testualmente il primo dispaccio dell’Associated Press, “per la prima volta in cinque anni, l’indice del settore dei servizi a livello nazionale – che include attività di ristorazione, turismo e viaggi, attività creditizie, costruzioni e commercio al dettaglio – si è portato in terreno negativo, accrescendo le sempre più diffuse preoccupazioni di una possibile recessione”.

Come per quasi tutti i dati economici utilizzati negli Stati Uniti d’America, è necessaria una spiegazione, in quanto l’ISM (The Insitute of Supply’s Management Report) Service rappresenta, insieme all’analogo indice riferito al settore manifatturiero, uno degli indicatori cruciali del livello di attività del settore dei servizi, un settore che negli USA riveste un’importanza di gran lunga superiore a quello del settore manifatturiero, in quanto la quota del PIL legata ai servizi in senso lato è nettamente superiore di quella legata, appunto alle attività manifatturiera che, a sua volta, supera largamente quella ascrivibile al settore agricolo.

Entrambi gli indici ISM indicano una fase espansiva dell’economia quando il valore si pone al di sopra della soglia dei 50 punti, mentre indicano una fase recessiva quando, ovviamente per un periodo più prolungato di quello relativo ad una singola osservazione mensile, lo stesso valore si colloca al di sotto della stessa soglia sopra indicata.

Ebbene, la preoccupazione che si registrava oggi tra gli analisti e gli operatori era dovuta al fatto che, non solo l’indice del settore dei servizi si è collocato decisamente al di sotto della soglia dei 50 punti, cosa che, come ricordavo all’inizio non accadeva da un quinquennio, ma che lo stesso indice è precipitato dal 54,4 di dicembre al 44,6 di gennaio, con un vero e proprio tonfo che sfiora di doli due decimi i 10 punti ed apre realmente, in anticipo sulla ratifica statistica che verrà solo dal verificarsi di due trimestri di crescita negativa del PIL USA, la tanto temuta fase recessiva dell’economia statunitense, una crisi che, peraltro è stata chiaramente annunciata da una raffica di dati recenti sul forte rallentamento dei consumi, sul forte calo degli investimenti e dal doppio colpo derivante dai pessimi dati sui nuovi sussidi di disoccupazione e sulla variazione negativa del numero degli occupati non agricoli resa nota venerdì scorso.

Per la seconda giornata consecutiva, gli indici statunitensi hanno oscillato vistosamente, proseguendo un’ondata negativa che dall’ennesima chiusura negativa statunitense di ieri si è trasferita ed amplificata sui mercati asiatici prima e su quelli europei sin da stamane per poi tornare da dove era partita con un’apertura negativa dei tre indici statunitensi di una intensità come non si vedeva da settimane.

Il calo contemporaneo dei 10 indici settoriali nei quali sono suddivise le azioni statunitensi chiarisce, inoltre, che alle ormai abituali difficoltà del settore creditizio e di quello assicurativo, con particolare riferimento alle un po’ disastrate compagnie monoline in cerca di salvatori, si aggiungono via via tutti i comparti di attività economica, così come va sottolineato che, dopo una tregua durata alcune sedute, i volumi di scambio sono tornati a livelli elevatissimi, così come l’indice di volatilità si sta portando sempre più vicino al livello toccato prima dello scoppio della bolla tecnologica, con il conseguente tonfo, in un volgere di tempo relativamente breve, del Nasdaq da un livello posto immediatamente al di sopra dei 5.000 punti a livelli posti nettamente al di sotto della soglia dei 2.000 punti, livelli realmente infimi dai quali sembrava essersi finalmente riscattato nell’autunno dell’anno scorso, quando già eravamo nel pieno della tempesta perfetta, ma i mercati azionari di tutto il mondo sembravano non curarsene affatto.

Non aiuta, peraltro, lo scivolamento della crisi finanziaria dall’agone delle borse e del bagno di sangue segnalato da bilanci sempre più in rosso di banche, finanziarie e compagnie di assicurazione a quello delle aule di tribunale, alle istruttorie sempre più frequenti avviate dalle numerose autorità di vigilanza deputate a valutare la correttezza dei comportamenti dei principali attori della scena finanziaria, per non parlare poi del nervosismo crescente delle banche centrali che sembrano realmente non sapere più cosa fare nei confronti di una crisi che sembra sempre di più un incendio sul quale, invece dell’acqua, i soccorritori stiano gettando della benzina.

Dopo aver tagliato, almeno Bernanke e soci, tutto quanto si poteva tagliare in un lasso di tempo così breve come quello intercorso dal 9 agosto 2007 ai giorni nostri, dopo aver inondato letteralmente di liquidità i sempre più riottosi protagonisti del credito a livello globale, dopo aver accettato anche l’inaccetabile dalle banche a garanzia dei suddetti finanziamenti, ben altro era lo scenario che i cow boys della Fed, i dilettanti allo sbaraglio della Bank of England, i templari della BCE e, per ultimo ma non ultimi, gli intrappolati della liquidità della Bank of Japan credevano di doversi attendere, un recupero di fiducia che proprio non si profila all’orizzonte, mentre anche l’inflazione torna a mordere quando tutto faceva ritenere che dovesse accucciarsi docilmente in un angolo.

Se fosse ancora vivo, John Maynard Keynes ripeterebbe quello che si sforzava di far capire agli economisti neoclassici durante la grande Depressione e, cioè, che si giungerà certamente alla fine ad una nuova situazione di equilibrio, ma che, molto verosimilmente, si tratterà di un livello che, in termini di reddito e di occupazione, si porrà molto al di sotto di quello iniziale, anche perché si trattava di un livello drogato e condizionato dallo sviluppo di diverse bolle speculative, uno sviluppo certamente favorito da quell’apparentemente senza limiti processo di finanziarizzazione che, fatte salve alcune battute di arresto, si è sviluppato ininterrottamente dal 1985 ai giorni nostri.

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