L’ex amministratore della Refco, uno dei leader mondiali nell’attività di brokeraggio di materie prime, Phillip R. Bennett, è stati ieri giudicato colpevole di aver commesso una ventina di reati, tra i quali, frode assicurativa, frode bancaria, riciclaggio di denaro e per aver fornito false informazioni alla Securities Exchange Commission, un cumulo di imputazioni di per sé impressionante, ma aggravate dalla reiterazione degli stessi reati, che ha indotto il giudice Naomi Reice Buchwald a condannarlo di fatto a restare in prigione a vita, anche perché l’imputato, che peraltro ha candidamente ammesso le sue responsabilità, ha oggi 59 anni e la pena massima prevista, il verdetto relativo sarà pronunciato il 20 maggio prossimo, ammonta a 315 anni, nonché la previsione della restituzione di 2,4 miliardi di dollari allo Stato.
L’aspetto inquietante della vicenda, tuttavia, è dato dal fatto che a determinare la pesantezza della pena restrittiva e di quella pecuniaria non è stata la gigantesca distrazione di fondi addebitata allo sventurato top manager, quanto le false dichiarazioni all’organo di vigilanza preposto alle attività borsistiche, una circostanza che rimanda alla mente, anche per l’appena trascorso anniversario dell’eccidio di San Valentino, la condanna di Al Capone non per l’enorme mole di reati da lui e dai suoi accoliti compiuti in una lunga e non certo onorata carriera, ma per questioni meramente di carattere fiscale, cosa che lo indusse probabilmente a riflettere in carcere sull’errore principale della sua vita: non aver avuto un ottimo e disinvolto fiscalista.
Con l’aria pessima che tira da mesi sui mercati, credo proprio che, pur nella comune sventura, esista una netta differenza tra l’operare alquanto disinvoltamente negli Stati Uniti d’America e in Europa (non parliamo poi dell’Italia), in quanto, dopo i giganteschi crack a raffica dei primi anni del nuovo millennio, la nazione che ospita la piazza finanziaria più importante del pianeta ha deciso, grazie ad un’importante legge bipartisan, di sopperire ai buchi regolatori e legislatori dovuti alla profonda fede statunitense nella libera iniziativa e nel libero mercato, prevedendo, ovviamente ex post, che chi avesse sbagliato da quel momento in poi avrebbe avuto tutto il resto della propria breve o lunga vita per riflettere, dietro le sbarre, sui propri errori.
Anche sul piano strettamente civilistico, le differenze tra l’Europa, o almeno larga parte di essa, ed il paese a stelle e strisce sono del tutto rilevanti, in quanto lo spettro di azioni per rivalersi sulle corporations e sui singoli top manager sono ancora molto più avanzate negli USA che da noi, basti pensare alla class action o ai poteri del singolo giudice attivati, non sempre a ragione, anche dalla richiesta di un singolo cittadino che si sente in qualche modo danneggiato da atti e/o comportamenti di una banca, di una compagnia di assicurazioni, di una utility, o di qualsivoglia azienda.
Già sento i nostri garantisti un po’ pelosi, spesso veri lupi travestiti da agnelli, ringhiare le loro osservazioni sulla eccessiva litigiosità sistemica esiste negli Stati Uniti, ma sono altresì certo che molte delle vicende accadute nel vecchio continente, ultima la maxi evasione fiscale con connessa esportazione illecita di capitali da 3,4 miliardi di euro operata da uno stuolo di manager tedeschi con sponda in Lussemburgo o in veri e propri paradisi fiscali, avrebbero trovato un deterrente più efficace se si applicassero anche da noi le severe leggi e i meno lacunosi regolamenti vigenti al di là dell’Atlantico.
Venendo, ahimè, ai temi dell’attualità, credo proprio che l’increscioso stato di salute delle compagnie monoline stia diventando, ogni giorno che passa, il catalizzatore di questa tempesta perfetta, anche perché le risultanze delle audizioni della commissione del Senato americano istituita ad hoc per valutare le possibili misure da adottare in materia sono realmente inquietanti, per non parlare poi del vero e proprio ultimatum lanciato dall’ancora temuto ex sceriffo Spitzer, attualmente Governatore dello Stato di New York, che ha perentoriamente detto, tra le urla e gli strepiti dei vertici delle compagnie monoline, che una soluzione andrà trovata entro tre, massimo cinque giorni.
Il problema vero, tuttavia, è rappresentato dal fatto che uuna soluzione vera e a portata di mano non c’è, in quanto da qualche anno queste compagnie, nate per fornire garanzie alle emissioni di titoli dei municipi, delle contee e degli stati federali, si sono gettate a capofitto nel fornire alquanto allegramente garanzie ai titoli della finanza strutturata, basandosi semplicemente sui top rating ottenuti ad un tanto al chilo ed esibiti un po’ spudoratamente dagli altrettanto allegri emittenti.
Purtoppo per MBIA, Ambac, Radian, Fgic e compagnia cantante, il problema sta proprio in questo, anche se a pagarne le spese, suscitando le ire del potente Governatore ed il nervosismo del nuovo ed altrettanto temuto sceriffo di New York, un procuratore generale che pare la fotocopia del suo predecessore nell’azione quotidiana e nelle non celate ambizioni politiche, sono entità pubbliche operanti nello Stato e nel New Jersey che stanno pagando sul debito anche il 20 per cento di interesse, in luogo del solito e ben più sostenibile 4 per cento, così come, peraltro, sta avvenendo in tutto per la maggior parte delle entità pubbliche comunque denominate esistenti negli Stati Uniti.
La mossa del solitamente prudente Warren Buffett ha avuto il merito di mettere ancora di più in luce questa evidente contraddizione, in quanto il suo manifesto interesse a riassicurare, per 800 miliardi di dollari, esclusivamente le obbligazioni delle varie entità pubbliche statunitensi (che, in alternativa, potrebbero essere direttamente garantite da un organismo pubblico quale la Federal Deposit Insurance Corporation, come propongono numerosi membri della già citata commissione senatoriale), lascerebbe alle preesistenti compagnie la non certo gradita elusiva sui titoli della finanza strutturata ormai considerati dai più molto meno garantiti degli un tempo disprezzati junk bonds (letteralemte, titoli spazzatura).
I ripetuti tentativi dell’apposito organismo di vigilanza newyorkese volti a convincere un discreto numero di banche globali e non ad aprire i cordoni della borsa in favore almeno del gruppetto di testa delle monoline, almeno in favore di MBIA ed Ambac, continuano a non avere alcun esito, anche perché, secondo stime sicuramente sottovalutate, le banche statunitensi sono già esposte nei confronti delle principali compagnie monoline per la bella cifra di 70 miliardi di dollari ed anche perché le banche sanno benissimo che i 15 miliardi loro richiesti non sono che una frazione delle effettive necessità delle compagnie e che vanno dagli 80 ai 200 miliardi di dollari.
L’aspetto inquietante della vicenda, tuttavia, è dato dal fatto che a determinare la pesantezza della pena restrittiva e di quella pecuniaria non è stata la gigantesca distrazione di fondi addebitata allo sventurato top manager, quanto le false dichiarazioni all’organo di vigilanza preposto alle attività borsistiche, una circostanza che rimanda alla mente, anche per l’appena trascorso anniversario dell’eccidio di San Valentino, la condanna di Al Capone non per l’enorme mole di reati da lui e dai suoi accoliti compiuti in una lunga e non certo onorata carriera, ma per questioni meramente di carattere fiscale, cosa che lo indusse probabilmente a riflettere in carcere sull’errore principale della sua vita: non aver avuto un ottimo e disinvolto fiscalista.
Con l’aria pessima che tira da mesi sui mercati, credo proprio che, pur nella comune sventura, esista una netta differenza tra l’operare alquanto disinvoltamente negli Stati Uniti d’America e in Europa (non parliamo poi dell’Italia), in quanto, dopo i giganteschi crack a raffica dei primi anni del nuovo millennio, la nazione che ospita la piazza finanziaria più importante del pianeta ha deciso, grazie ad un’importante legge bipartisan, di sopperire ai buchi regolatori e legislatori dovuti alla profonda fede statunitense nella libera iniziativa e nel libero mercato, prevedendo, ovviamente ex post, che chi avesse sbagliato da quel momento in poi avrebbe avuto tutto il resto della propria breve o lunga vita per riflettere, dietro le sbarre, sui propri errori.
Anche sul piano strettamente civilistico, le differenze tra l’Europa, o almeno larga parte di essa, ed il paese a stelle e strisce sono del tutto rilevanti, in quanto lo spettro di azioni per rivalersi sulle corporations e sui singoli top manager sono ancora molto più avanzate negli USA che da noi, basti pensare alla class action o ai poteri del singolo giudice attivati, non sempre a ragione, anche dalla richiesta di un singolo cittadino che si sente in qualche modo danneggiato da atti e/o comportamenti di una banca, di una compagnia di assicurazioni, di una utility, o di qualsivoglia azienda.
Già sento i nostri garantisti un po’ pelosi, spesso veri lupi travestiti da agnelli, ringhiare le loro osservazioni sulla eccessiva litigiosità sistemica esiste negli Stati Uniti, ma sono altresì certo che molte delle vicende accadute nel vecchio continente, ultima la maxi evasione fiscale con connessa esportazione illecita di capitali da 3,4 miliardi di euro operata da uno stuolo di manager tedeschi con sponda in Lussemburgo o in veri e propri paradisi fiscali, avrebbero trovato un deterrente più efficace se si applicassero anche da noi le severe leggi e i meno lacunosi regolamenti vigenti al di là dell’Atlantico.
Venendo, ahimè, ai temi dell’attualità, credo proprio che l’increscioso stato di salute delle compagnie monoline stia diventando, ogni giorno che passa, il catalizzatore di questa tempesta perfetta, anche perché le risultanze delle audizioni della commissione del Senato americano istituita ad hoc per valutare le possibili misure da adottare in materia sono realmente inquietanti, per non parlare poi del vero e proprio ultimatum lanciato dall’ancora temuto ex sceriffo Spitzer, attualmente Governatore dello Stato di New York, che ha perentoriamente detto, tra le urla e gli strepiti dei vertici delle compagnie monoline, che una soluzione andrà trovata entro tre, massimo cinque giorni.
Il problema vero, tuttavia, è rappresentato dal fatto che uuna soluzione vera e a portata di mano non c’è, in quanto da qualche anno queste compagnie, nate per fornire garanzie alle emissioni di titoli dei municipi, delle contee e degli stati federali, si sono gettate a capofitto nel fornire alquanto allegramente garanzie ai titoli della finanza strutturata, basandosi semplicemente sui top rating ottenuti ad un tanto al chilo ed esibiti un po’ spudoratamente dagli altrettanto allegri emittenti.
Purtoppo per MBIA, Ambac, Radian, Fgic e compagnia cantante, il problema sta proprio in questo, anche se a pagarne le spese, suscitando le ire del potente Governatore ed il nervosismo del nuovo ed altrettanto temuto sceriffo di New York, un procuratore generale che pare la fotocopia del suo predecessore nell’azione quotidiana e nelle non celate ambizioni politiche, sono entità pubbliche operanti nello Stato e nel New Jersey che stanno pagando sul debito anche il 20 per cento di interesse, in luogo del solito e ben più sostenibile 4 per cento, così come, peraltro, sta avvenendo in tutto per la maggior parte delle entità pubbliche comunque denominate esistenti negli Stati Uniti.
La mossa del solitamente prudente Warren Buffett ha avuto il merito di mettere ancora di più in luce questa evidente contraddizione, in quanto il suo manifesto interesse a riassicurare, per 800 miliardi di dollari, esclusivamente le obbligazioni delle varie entità pubbliche statunitensi (che, in alternativa, potrebbero essere direttamente garantite da un organismo pubblico quale la Federal Deposit Insurance Corporation, come propongono numerosi membri della già citata commissione senatoriale), lascerebbe alle preesistenti compagnie la non certo gradita elusiva sui titoli della finanza strutturata ormai considerati dai più molto meno garantiti degli un tempo disprezzati junk bonds (letteralemte, titoli spazzatura).
I ripetuti tentativi dell’apposito organismo di vigilanza newyorkese volti a convincere un discreto numero di banche globali e non ad aprire i cordoni della borsa in favore almeno del gruppetto di testa delle monoline, almeno in favore di MBIA ed Ambac, continuano a non avere alcun esito, anche perché, secondo stime sicuramente sottovalutate, le banche statunitensi sono già esposte nei confronti delle principali compagnie monoline per la bella cifra di 70 miliardi di dollari ed anche perché le banche sanno benissimo che i 15 miliardi loro richiesti non sono che una frazione delle effettive necessità delle compagnie e che vanno dagli 80 ai 200 miliardi di dollari.