Mentre in Francia si sta ancora cercando di metabolizzare l’impatto della vicenda di Socgen, l’importante banca francese che ha accusato perdite per circa 7,5 miliardi di euro legati al “buco” creato, in apparente solitudine, dal trader Jerome Kreviel e alle perdite rilevanti sui titoli della finanza strutturata, è giunta ieri la notizia che la seconda banca svizzera, il Credit Suisse, è stato costretto ad annunciare svalutazioni per 2,85 miliardi di dollari relative al primo trimestre legate ad “errori” compiuti da alcuni suoi trader, prontamente sospesi, nella valutazione di CDO, Commercial Papers e altre piacevolezze della finanza strutturata.
Non ho usato a caso il termine costretta, in quanto, secondo la nota di un analista dell’altrettanto inguaiata Bear Stearns, peraltro non smentita dal colosso creditizio svizzero, l’outing inatteso dell’amminstratore delegato di Credit Suisse, Brady Dougan, è stato determinato dalla richiesta perentoria della Kpmg, revisore ufficiale dei conti, di inserire queste perdite, pena la non certificazione dei conti stessi, segnale questo del nuovo corso delle società di certificazione e, ancor più, delle società di rating sempre più nel mirino dei governi e delle autorità monetarie per l’estrema leggerezza con la quale hanno concesso sino a poco tempo fa certificazioni di imprese di ogni ordine e rango e valutazioni stellari dei titoli della finanza strutturata.
La data della scoperta e del relativo, non si sa quanto tempestivo, annuncio, nonché le prime caute ammissioni dello sventurato CEO elvetico, inducono a ritenere che sarà necessario rivedere anche i conti del quarto trimestre del 2007 e conseguentemente quelli dell’intero esercizio 2007, il che renderebbe realmente comici i lusinghieri commenti con i quali la stampa specializzata aveva accolto il comunicato della banca che non mancava di sottolineare come, a differenza della rivale UBS, il Credit Suisse era passato sostanzialmente indenne attraverso i marosi della tempesta perfetta.
La vicenda di Socgen e quella del Credit Suisse fanno assumere una ben diversa rilevanza agli appelli accorati che i ministri economici e i governatori delle banche centrali dei paesi maggiormente industrializati hanno rivolto nelle scorse settimane ai vari soggetti che operano nel mercato finanziario globale affinche dicessero la verità, tutta la verità, sullo stato dei loro conti, anche perché Bernanke, Trichet, Draghi, Paulson, Padoa Schioppa e compagnia cantante sono ben consapevoli del fatto che larga parte della montagna di titoli della finanza strutturata sono spesso annidati off balance sheet, anche se i due casi citati permettono di comprendere come vi sia ben poca traparenza anche al di sopra della linea di bilancio.
L’ultima, anche se temo proprio che non sarà l’ultima, scoperta consente anche di dare maggiore sostanza alla tesi sempre più accredita che gli effetti maggiori della crisi finanziaria si vedranno nel vecchio continente, all’interno ed all’esterno dell’area dell’euro, pur avendo il suo epicentro negli Stati Uniti d’America, anche per l’ovvia considerazione che le leggi ed i regolamenti della miriade di stati e staterelli che compongono l’Unione Europea, senza considerare quella realtà creditizia così importante rappresentata dalla extracomunitaria Confederazione Elvetica e quei paradisi fiscali che si dimostrano sempre più degni di essere ospitati nella black list, rispetto alle relativamente recenti regole in vigore negli USA, regole che hanno indotto una miriade di banche ed imprese europee a chiedere in fretta e furia il delisting dalla borsa di Wall Street.
D’altra parte, la solo apparentemente assurda incapacità di trovare una qualche sistemazione delle per ora poche entità creditizie europee in difficoltà a causa della crisi finanziaria la dice lunga sul grado di fiducia che i banchieri europei ed i loro sempre più preoccupati vigilatori hanno ognuno dello stato dei conti dell’altro, anzi, a partire dalla vicenda francese e da quella svizzera, mi spingerei a dire che una larga parte dei numeri uno delle banche europee iniziano a nutrire seri dubbi anche dei conti della banca o della finanziaria della quale sono alla guida, a volte da lungo tempo.
Si tratta, peraltro, di una circostanza tutt’altro che assurda come potrebbe apparire a prima vista, in quanto gli addetti ai lavori e gli analisti sanno benissimo quanto si sia sviluppata negli ultimi anni, se non negli ultimi decenni, l’autonomizzazione, in parte voluta ed in parte subita da Chairman e CEO, di quelle entità denominate Corporate & Investment Banking, vere banche nelle banche, aventi canali di reclutamento, sistemi di compensazione ed anche riferimenti valoriali nettamente differenziati da quelli che vigono nella parte più tradizionale dell’attività creditizia, una separazione favorita dai risultati stellari che queste entità hanno realizzato fino al 2006.
Purtroppo per tutti, la rivincita e la rivalutazione che sta ottenendo il modello originate and hold rispetto a quello caro alle donne e gli uomini che popolano le CIB di tutto il mondo, cioè il micidiale originate to distribute, con le annesse fabbriche prodotto che ormai sfornano prodotti sempre più incomprensibili e che hanno resa necessaria la nuova professione degli spacchettatori, rischia di arrivare troppo tardi, anche perché il valore nozionale dei titoli, più o meno strutturati, ha raggiunto livelli tali da rischiare di travolgere con sé anche la parte tradizionale dell’attività bancaria, che, peraltro, è divenuta sempre più la fonte, via cartolarizzazioni ed altri marchingegni, della prolifica ed intensissima attività delle stesse CIB.
Ho già segnalato la lucidissima lezione tenuta dal professor Luigi Spaventa nel corso dei lavori del recente Congresso del Forex e delle altre associazioni dei mestieri presenti nel mercato finanziario, svoltosi a Bari, ma ritengo utile segnalare anche la severa reprimenda giunta da Gonzales, altissimo esponente del Banco Bilbao Vizcaya y Argentaria sulla necessità di un tasso maggiore di etica nella professione, così come la sua convinzione che il vero problema consista nell’applicare realmente e severamente le non poche, ma ben poco applicate, regole esistenti.
In un siffatto scenario, hanno avuto meno riscontro di quanto avrebbe potuto essere prevedibile le dichiarazioni rese ad Istanbul dal CEO di Unicredit Group, Alessandro Profumo, dichiarazioni rese in margine ai lavori del CdA del gruppo svoltisi nella città turca e che puntavano a rendere noto al mondo intero che la sua non è la banca dei derivati, parole sovrastate da quelle pronunciate dal Direttore Generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, che della questione si sta attivamente occupando, grazie anche al lavoro dei suoi ispettori, attivati anche dal dispositivo di agosto della Consob e dalle sempre più numerose denuncie di clienti che si ritengono, a torto o a ragione, danneggiati.