All’indomani del modesto taglio delle previsioni sulla crescita mondiale e su quella delle singole aree nel 2008 contenuto nell’aggiornamento delle stime del Fondo Monetario Internazionale diffuse nei giorni scorsi, un taglio dal 4,4 al 4,1 per cento che sembra puntare tutto su un’ipotesi di soft landing dell’economia statunitense, credo sia giusto interrogarsi sull’operato e le strategie di questo organismo sopranazionale che vede 185 paesi aderenti ed è uno dei due pilastri dell’ormai inesistente sistema monetario internazionale scaturito da quegli accordi di Bretton Woods raggiunti a seconda guerra mondiale non ancora ultimata, basati su un impianto concettuale che era poi quello dell’allora ministro del Tesoro USA, White, incurante delle argomentazioni di John Maynard Keynes che non si risparmiò nel denunciare le asimmetrie di fondo del sistema che si stava adottando.
Risparmio ai lettori le tecnicalità insite nei due sistemi che allora si contrapposero violentemente, pur ricordando che l’intero castello di carte realizzato da White e gestito dai suoi successori si sgretolò il 15 agosto del 1971 con la decisione unilaterale dell’allora presidente Richard Nixon di porre fine alla convertibilità del dollaro in oro alla parità prefissata di 35 dollari per oncia, per evidenziare che, a prescindere dai direttori esecutivi europei che si sono succeduti alla sua guida, qualificati economisti, operatori e politici di molti paesi del mondo sono uniti dalla critica dell’evidente adozione dei classici due pesi e due misure da parte del FMI nei confronti delle crisi economiche e valutarie intervenute dal momento della sua costituzione ai giorni nostri.
Senza andare troppo indietro nel tempo, tornando, ad esempio, a quegli anni Settanta nei quali fu chiesto all’Italia di impegnare parte delle sue riserve auree per potere ottenere un finanziamento che eccedeva la quota di diritti speciali di prelievo di spettanza del mnostro paese, è sufficiente ricordare quanto accadde nella crisi asiatica degli anni Novanta, quando il fondo, a fronte di una crisi sostanzialmente valutaria, impose ai paesi dell’area di adottare una politica monetaria ed una politica fiscale estremamente restrittive, una ricetta che determinò, almeno nei paesi che decisero di adottarla, una recessione profonda e li rispedì anni indietro nel percorso di crescita che avevano percorso negli anni precedenti, al punto di essere definiti le Tigri Asiatiche.
Difficilmente l’attuale direttore esecutivo del FMI, il francese Strass Khan, ammetterà che l’organismo da lui presieduto è tradizionalmente guidato da un europeo perché è manifestamente incompetente sulle questioni che riguardano gli Stati Uniti d’America, ma sarebbe comunque tenuto a spiegare come mai, di fronte al dissesto strutturale delle partite correnti statunitensi e l’altrettanto disastroso stato delle finanze pubbliche di quel paese, non siano stati inviati nugoli di ispettori, non sia stato redatto un rapporto ed imposte quelle severe misure normalmente richieste a decine e decine di paesi, a volta in condizioni migliori di quelle in cui versano gli USA.
L’aggravante, semmai, è data dal fatto che a quegli irrisolti nodi strutturali degli Stati Uniti si aggiunge da mesi una crisi finanziaria di dimensioni senza precedenti e che trova risposte, in termini di politica monetaria e fiscale estremamente accomodante, che vanno nella direzione esattamente opposta alle ricette ed alle terapie invariabilmente prescritte dal FMI in casi del genere.
So bene che Strass Kahn non farà assolutamente nulla nei confronti del socio di riferimento del FMI da lui gestito, ma ritengo che il messaggio che viene così implicitamente inviato ai membri, che lo ripeto sono di un numero solo marginalmente inferiore a quello dei membri dell’ONU, avrà un impatto devastante in termini di quell’assunto fondamentale della civile convivenza dei popoli che è data dalla uguaglianza dei diritti e dei doveri per tutti i partecipanti ad un medesimo consesso.
*
Una delle stranezze di questa crisi finanziaria è data dalla reazioni della banca delle finanziaria o dell'assicurazione monoline che, tempo per tempo, rendono note le loro più o meno gravi difficoltà, reazioni che assomigliano quasi sempre al sollievo perché ci si aspettava di peggio, con il relativo rimbalzo delle quotazioni che abitualmente segue la diffusione dei dati, ed è per questo motivo che non mi sono stupito se una delle due alquanto decotte compagnie di assicurazioni monoline, ieri era il turno della numero uno pro tempore MBIA, dopo aver annunciato svalutazioni per 3,5 miliardi di dollari nel quarto trimestre 2007, una perdita per oltre 2 miliardi e ricavi sprofondati a soli 185 milioni di dollari, ha registrato un sensibile rialzo della quotazione della propria azione.
*
A quanti continuano ad interrogarsi sulle sorti di Société Générale, consiglio di abbandonare le noiose pagine dei quotidiani finanziari e non che dedicano grande spazio alla questione, per dirottare la propria attenzione sui siti dei bookmakers londinesi che, in base alle relative quote, hanno già incoronato la vincitrice del concorso per l'aggiudicazione di Socgen, individuandola nella storica rivale BNP Paribas.
Nessun commento:
Posta un commento