La vera e propria resa dell’Istituto Nazionale di Statistica italiano di fronte alle pressanti richieste delle associazioni dei consumatori, dei sindacati confederali e non, di larga parte dell’opinione pubblica, che, seppure con toni ed accenti diversi, chiedevano a voce sempre più alta l’elaborazione di un indice che provvedesse in qualche modo a colmare il divario tra l’inflazione ufficiale e quella percepita, rischia di produrre effetti forse sottovalutati dalle donne e dagli uomini chiamati a “dare i numeri” ufficiali relativi allo stato ed alle prospettive del nostro Paese.
Pur con tutte le cautele dovute all’introduzione ed alla diffusione di un indice nuovo e che, per dichiarata volontà dei solitamente paludati autori delle statistiche ufficiali, non si propone di sostituire quello a cui fanno riferimento, dall’abolizione della scala mobile ed i successivi protocolli del luglio 1992 e di quello stesso mese dell’anno successivo, i bienni economici che scandiscono i contratti normativi quadriennali, è, tuttavia, di tutta evidenza che il divario segnalato di quasi due punti percentuali pieni tra le dinamiche dei due indici in gennaio, +4,8 e +2,9 per cento, rispettivamente, su base annua, è di quelli destinati a non restare senza una qualche conseguenza.
Pur non amando, per idiosincrasia tutta personale, ritornare su questioni già toccate, mi vedo costretto a riprendere alcune delle questioni trattate in una precedente puntata del Diario, quella del 1° gennaio 2008 e che recava il titolo “Le due vere cause della perdita del potere di acquisto dei redditi da lavoro dipendente e da pensione in Italia”, mentre è apparso sul sito della UILCA, su Flipnews e sul quotidiano on line Rosso di Sera come “Speciale sulla questione salariale” qualche giorno più tardi, testo a cui rinvio il lettore per tutte le parti che non tratterò in questa sede.
Premetto che non tornerò sulla controversa questione dell’adesione sin dall’avvio dell’Italia all’euro e sulla parità fissa ed irrevocabile stabilita nel maggio del 1998 ad appena tre anni dai minimi storici toccati dalla nostra valuta sui cross principali, in quanto ritengo del tutto esaustive le argomentazioni relative a quella causa della perdita del potere di acquisto, così come ribadisco la probabile inevitabilità delle scelte che furono allora compiute dalle autorità monetarie e dal Governo e la stima personale, per quanto può valere ed a scanso di equivoci e volgari strumentalizzazioni, per l’allora Premier, Romano Prodi e per il suo ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, due veri esempi di civil servant e che si trovarono nella difficile condizione di ratificare di fatto l’ultima e pesante svalutazione della lira, senza per questo essere minimamente ringraziati dai nostri imprenditori, troppo adusi da tempi immemori al molto italico “chiagni e fotti”.
La mossa azzardata dell’Istat, invece, ripropone con forza le questioni relative all’altro corno del dilemma, l’effetto, cioè, della desensibilizzazione prima e dell’abolizione poi della scala mobile, passando per l’abolizione di quelle cosiddette scale mobili “anomale” che caratterizzavano alcune categorie, tra le quali i bancari, scelte sofferte e quasi drammatiche che videro lacerazioni dell’animo anche nei leader sindacali che alla fine accettarono le proposte governative, anche di fronte a quello che l’ex premier Giuliano Amato ebbe a definire l’orlo del burrone nel quale rischiava di precipitare il Paese intero e non solo il suo apparato produttivo, un rischio che appariva oltremodo concreto ai decision makers dell’epoca e che ci avrebbe portati dritti dritti verso quello scenario drammatico vissuto parecchi anni dopo dall’Argentina.
Premettendo il massimo rispetto per la maggior parte degli autori di quelle scelte così difficili, almeno per quanti operavano sul versante sindacalee su quello governativo, ritengo, tuttavia, che il dibattito teorico che precedette quelle scelte e che vide contrapporsi le tesi del compianto Franco Modigliani, un grande economista che aveva, però, il difetto di vedere l’Italia dal suo osservatorio del Massachussets Institute of Technology, il giustamente celebre MIT, posto in una amena e piccola località nelle vicinanze di Boston, tesi peraltro sposate dalla maggior parte degli economisti italiani, dalla Banca d’Italia, dal mondo imprenditoriale al completo e da larga parte del mondo politico.
In estrema e certamente rozza sintesi, l’idea fondante della critica del Professor Modigliani ai meccanismi di indicizzazione salariale vigenti allora in Italia era data dal fatto che questi, piuttosto che degli effetti, fossero in realtà la causa dei tassi esagerati di inflazione nel nostro Paese che, negli anni Settanta ed in parte degli anni Ottanta, arrivò a sperimentare, per più di un anno, tassi annui di crescita dei prezzi anche superiori al 20 per cento.
Non servirono a dissuadere il celebre accademico, vincitore a pieno merito e semmai con grave ritardo del Premio Nobel per l’economia per le sue intuizioni in materia di risparmio pubblicate decenni prima della cerimonia di Stoccolma, le evidenze di tassi di inflazione notevolissimi esistenti nello stesso periodo considerato in importanti nazioni europee, cito, a solo titolo di esempio, la Gran Bretagna, aventi sistemi contrattuali diversi e che non prevedevano alcuna forma automatica di indicizzazione, ma solo cadenze molto ravvicinate del rinnovo della parte economica dei contratti, accompagnate comunque da doverose verifiche ex post.
E’ quasi superfluo sottolineare come il problema non risiedesse in una sottile disputa accademica tra le tesi di Modigliani e dei suoi brillanti allievi italiani, ricordo per tutti il compianto Ezio Tarantelli vilmente assassinato dalle brigate rosse ed il mio amico Giampiero Capponi che ebbe appena il tempo di scrivere un bellissimo articolo per Il Sole 24 Ore in occasione del conferimento del Nobel al suo amato Maestro per venire poi strappato giovanissimo alla vita da una terribile malattia, e, in posizione solitaria ma certo non per questo sbagliata, il Professor Augusto Graziani che sosteneva che un’eventuale indicizzazione al 100 per cento di salari, stipendi e pensioni avrebbe costituito un valido ed efficace deterrente rispetto al disinvolto mark up operato dagli imprenditori e dai commercianti di casa nostra.
Premetto che il professor Graziani, nipote dell’omonimo economista vilmente cacciato dall’Accademia dei Lincei e dall’insegnamento universitario a seguito di quelle odiose leggi razziali che il regime fascista adottò non solo su pressione degli alleati nazisti ma per intimo ed autonomo convincimento, è forse il più grande economista vivente italiano, caratterizzato da un percorso dottrinario che lo ha visto giovanissimo in cattedra con idee neoclassiche, nonché garante per l’Italia delle prestigiose borse Fullbright, per poi approdare, attraverso un percorso anche tormentato, ad una visione critica dei modelli e delle teorie economiche dominanti a livello accademico ed a porsi come solitario faro di riferimento per una sparuta schiera di giovani economisti, anche molto diversi tra di loro, ma aventi in comune la ferma decisione, in qualche caso anche mantenuta, di non portare il proprio cervello all’ammasso solo per convenienza o interesse personale.
Non lo dico certo per averlo personalmente conosciuto e perché ho avuto il grande onore di averlo come relatore della mia tesi di laurea, ma credo proprio che sarebbe stato meglio se la sua voce fosse stata allora più ascoltata, anche se sono altresì certo che, più che alle pur dotte diatribe tra economisti, la somma di errori che ha portato alla più iniqua distribuzione del reddito che l’Italia abbia mai registrato nella sua storia repubblicana hanno contribuito in misura certamente maggiore la scelta di un ventaglio di tecnicalità, quali il tasso programmato di inflazione basato su un paniere assolutamente inattendibile nelle voci e nei relativi pesi, così come l’avidità e l’assoluta miopia delle associazioni dei datori di lavoro e, the last but not the least, l’incapacità da parte sindacale di dotarsi di una visione dell’economia basata su valori e parametri realmente alternativi a quelli che caratterizzavano, ed ancora caratterizzano, il pensiero economico dominante.