Come, credo, la maggior parte di coloro che hanno avuto la ventura di leggerlo su la Repubblica di ieri, sono rimasto molto impressionato dall’articolo-saggio dell’economista Nouriel Roubini dall’eloquente titolo “Dodici tappe verso la crisi”, una sorta di percorso ragionato verso il baratro prossimo venturo, che è dato dall’avvitamento della crisi su se stessa, in una specie di spirale senza ritorno nella quale l’imperversare dell’effetto domino non consente a nessuno degli operatori dell’economia, imprese, famiglie e intermediari finanziari, né tantomeno a regolatori e governi, di riprendere in mano il filo di Arianna per uscire indenni dall’oscuro labirinto.
Devo, tuttavia, dire con altrettanta franchezza che, preso da ormai poco meno di sette mesi dall’analisi quotidiana della crisi finanziaria, non riesco ad appassionarmi più di tanto al gioco proposto dal brillante economista, anche se trovo spesso i suoi brillanti articoli una vera e propria boccata di ossigeno nel mare magnum di informazione velinara se non embedded che ci sta alluvionando dal 9 agosto dello scorso anno, così come confesso di non sapere assolutamente in quale delle tappe indicate da Roubini ci troviamo, anche se segnalo da tempo che le onde della tempesta perfetta si stanno facendo più alte e pericolose ogni giorno che passa.
A quanti si stanno stracciando letteralmente le vesti di fronte all’insidia sempre più convinta mossa alla soglia degli 1,52 dollari per euro, così come a quella rappresentata dal precipitare sempre più convinto del dollaro verso la soglia psicologica dei 100 yen, mi permetto sommessamente di ricordare le previsioni (è proprio vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio) formulate su questo blog a fine 2007 e che vedevano un dollaro sempre più debole e pronto a portarsi a 1,70 contro euro e convintamente al di sotto dei 100 yen per dollaro, mentre prevedevo una forte flessione del prezzo del greggio, ancora più sensibile se accompagnata dai livelli sopra indicati della valuta statunitense, ricordando, al contempo, che l’orizzonte previsivo investiva l’intero 2008 e che, quindi, i miei quattro lettori dovranno avere un po’ di pazienza per vederle realizzate.
Eppure, inondando il mercato di liquidità, accettando, a sconto, rilevanti fette della montagna di titoli della finanza strutturata e operando in maniera inusualmente aggressiva sul mercato dei cambi a chiaro e convinto sostegno del dollaro, le principali banche centrali sembravano aver ottenuto qualche discreto successo, anche se ampiamente sproporzionato rispetto all’immenso volume di fuoco proveniente dalle batterie ormai esauste messe in campo dai cow boys della Federal Reserve e dai neotemplari dell’istituto di Francoforte, ma, purtroppo, quando si opera ampiamente contro vento non si può sperare di andare al di là di qualche modesto ed effimero successo, mentre è altresì inevitabile che, prima o poi, si inneschi quel micidiale effetto boomerang cui stiamo assistendo in questi ultimi giorni sui tre mercati su cui le banche centrali si erano così fortemente impegnate.
D’altro canto, ad una analisi francamente errata della cause della più grave e profonda crisi finanziaria dal secondo dopoguerra, non possono che seguire diagnosi errate della malattia e terapie dagli effetti altrettanto disastrosi, un insieme di elementi che fanno perdere credibilità e reputazione ai banchieri centrali proprio quando si registra una lack of confidence di dimensioni mai verificatasi nei confronti di banche, finanziarie, compagnie di assicurazioni e compagnia cantante di attori del mercato finanziario globale.
Ma cosa dovrebbe fare il popolo dei risparmiatori e degli investitori, più o meno istituzionali, impegnato da oltre sette mesi nel più prolungato sciopero degli investimenti che la recente storia ricordi, di fronte ai giochi di parole del presidente Bush ed alle previsioni sul prossimo fallimento di altre banche provenienti da una Fed in pieno panic cutting? Né più né meno quello che stanno già facendo e, cioè, continuare pervicacemente a tenersi alla larga dalle sirene nemmeno tanto allettanti rappresentate da venditori sempre più disperati dei titoli della finanza strutturata e da tutto quello che porti con sé un’alea anche minima di rischio vero o presunto.
Ho appreso solo in questi giorni che la preveggente e ben informata Goldman Sachs non era stata l’unica grande attrice del mercato finanziario globale ad avere iniziato ad uscire per tempo, e con larghissimo anticipo, dalla sua enorme esposizione espressa in CDO, LBO e tutte le altre diavolerie prodotte da una vera e propria schiera di sofisticati tecnici operanti nelle fabbriche prodotto delle CIB, in quanto il colosso svizzero UBS avrebbe accusato solo un leggero ritardo nell’operare una defaticante ritirata strategica rispetto all’intuizione di David Viniar, preveggente, ascoltato e certamente strapagato CFO di Goldman, solo che il problema per entrambi i global players del mercato finanziario globale era rappresentato dall’immensa vastità degli stock di titoli in loro possesso al momento della decisione di disimpegnarsi e che li ha costretti a mantenere presso di sé ammontari tali da procurare danni rilevanti allo scoppio della tempesta perfetta, anche se il gigantesco smaltimento le ha messe al riparo dal rischio di un altrimenti certo e gigantesco default.
Vedendo i solitamente compassati e felici azionisti di UBS dare di sé uno spettacolo non certo esaltante nel corso della recente assemblea del colosso svizzero, scene tali che hanno fatto addirittura temere per l’incolumità fisica dell’un tempo potentissimo numero uno dell’altrettanto potentissima banca extracomunitaria, sono venute alla mente le scene drammatiche dell’assalto agli sportelli di Northern Rock e quelle, dai più rimosse, dell’ira e della disperazione dei milioni di investitori travolti dalle precedenti crisi finanziarie ed economiche che hanno ripetutamente afflitto il pianeta nel corso del secolo che si è concluso da meno di otto anni.
Sono perfettamente consapevole che questa puntata del Diario, come purtroppo molte altre in precedenza, non sarà di conforto per chi la legge, ma il problema è nei fatti descritti molto più che nella loro rappresentazione, anche perché, almeno per me, il copione di questa tempesta perfetta era chiaro sin dal 3 settembre scorso, quando, con l’articolo sulle vere cause della crisi, ho dato inizio ad un’avventura editoriale nella quale non avrei mai creduto di trovarmi impegnato.
Per una volta almeno, risparmio i dettagli di una giornata orribile come tante delle altre che l’hanno preceduta, anche perché la scena che si è svolta su tutti i fusi orari è stata più o meno la stessa.