Sugli operatori statunitensi già un po’ frastornati di loro, è giunto ieri un uno-due di notizie relative a sondaggi che misurano mensilmente la fiducia di investitori e consumatori realmente inquietanti, entrambi evidenzianti variazioni negative di entità tale da non essere prevedibili, né infatti previste, dallo stuolo di analisti impegnati sulla piazza newyorkese, che, pur passando gran parte del loro tempo a lucidare le loro palle di vetro sempre più opache, raramente ci azzeccano quando si verificano quelli che vengono giustamente definiti dei salti, per non parlare di quello che accade quando sul tavolo verde del casinò della finanza globale vengono gettate le cosiddette wild cards.
A giungere per primo è il comunicato della Federal Reserve di New York che rende noto che il proprio indice delle condizioni generali dell’attività economica nell’importantissima area da essa sorvegliata è passato da una lettura positiva di 9,03 in gennaio ad una negativa di 11,72 punti nel mese di febbraio, con una variazione assoluta di oltre 20 punti ed un valore che si pone al di sotto dello zero per la prima volta dal maggio del 2005, contro una previsione del consensus degli analisti che vedeva l’indice ancora in territorio positivo con un valore di 6,5 punti.
Mentre gli operatori ancora si stavano interrogando sulle conseguenze di questo tonfo nel territorio che indica il prevalere delle risposte negative su quelle positive in un’area non certo secondaria degli Stati Uniti d’America, giungeva la lettura dell’indice di febbraio dell’Università del Michigan che segnalava 69,6, in calo dell’11 per cento rispetto al dato del mese precedente e che porta l’indice ai livelli della recessione del 1992, mentre il dato sulle aspettative è crollato da 68,1 a 59,4, mentre vi risparmio, per carità di patria e per lontano spirito di appartenenza, le previsioni al riguardo formulate dagli analisti ed il loro successivo arrampicarsi sugli specchi.
Ricordavo ieri che un accurato sondaggio statunitense segnalava che due interrogati su tre erano assolutamente convinti che l’economia a stelle e strisce stesse già attraversando una fase di recessione, sostenendo che niente è peggio nelle vicende economiche delle convinzioni delle persone, in particolare se appartengono a quel popolo di veri e propri eroici consumatori USA, combattenti senza pari nella corsa agli acquisti, una corsa che, peraltro, produce una vera orchestra di zip zip delle loro carte di credito alle casse dei negozi e supermercati, almeno di quelle che non sono ancora state disattivate dalle società emittenti, sempre più preoccupate in relazione al rientro da un outstanding complessivo che dovrebbe avere allegramente superato i mille miliardi di dollari.
Il fatto che, per l’ennesima volta dall’inizio del 2008, l’ottava si sia chiusa con un segno negativo, anche se di dimensioni assolutamente modeste rispetto a quello segnalato giovedì, non è di per sé rilevante, in quanto, come ripeto da tempo, non è tanto l’andamento del mercato azionario il fenomeno da tenere sotto controllo, quanto gli effetti sempre più evidenti della prolungata crisi finanziaria sull’andamento dell’economia reale statunitense e globale, al punto che, anche un dato positivo come la flessione del deficit commerciale 2007, dopo cinque record annuali di fila, non viene salutato con entusiasmo, in quanto viene visto come un ulteriore segnale, via debolezza dell’import USA, della sempre più evidente inversione di tendenza dell’economia e di quel fenomeno che l’ineffabile Bernanke ha definito lo stringere la cinghia da parte dei consumatori (a volte, anche prodotta da Ferragamo o da Gucci).
Assolutamente incuranti delle feroci critiche ricevute da uno dei loro scrutinati, le ormai impavide agenzie di rating continuano nella loro attività di taglio dei rating delle compagnie monoline, ma, più in silenzio e quotidianamente di fette miliardarie della vera e propria montagna di titoli della finanza strutturata e non, apparentemente incuranti del pauroso calo del flusso commissionale per nuove emissioni, ma soprattutto per le connesse attività di consulenza, ridotte ormai al lumicino, al punto da temere per la permanenza della loro stessa tripla A, coraggio che definirei piuttosto paura dell’introduzione di nuove e più stringenti regole sul loro operato che governi e autorità monetaria, nonché autorità di vigilanza sulle borse valori, minacciano un giorno sì e l’altro pure.
Non stupisce, peraltro, che una di questa compagnie, l’appena degradata (da AAA ad A3) Financial Guaranty Insurance Co., abbia chiesto alle competenti autorità dello Stato di New York di potersi dividere in due compagnie, una almeno delle quali, quella buona, meritevole della tripla A, indispensabile per continuare ad operare nell’oramai disastrato settore della emissione di garanzie all’emissione di titoli di ogni genere e specie, che, ricordo per i lettori distratti, ha già attualmente un valore complessivo di 25 mila miliardi di dollari e i cui flussi addizionali vedono le aste, per la disperazione delle entità chiamate a collocarli o a tenerseli, sempre meno frequentate, se non del tutto deserte, e tali saranno finché non tornerà un minimo di fiducia da parte di quegli investitori troppe volte scottati in questi anni per fidarsi dell’acqua tiepida.
Apprendo che il presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, smessi per un attimo i panni di autentico interprete, con piglio assolutamente neotemplare, dello spirito teutonico della Bundesbank, si è esercitato nel mestiere, per lui assolutamente inusuale, di analista e revisore, affermando che, al netto delle difficoltà evidenti anche ai ciechi e forse ai sordi, dell’economia statunitense, non vede rischi concreti di recessione per l’un tempo scintillante locomotiva a stelle e strisce, al che non mi resta che augurare a me stesso a tutti gli europei, che un uomo di tale pasta e buona parte dei suoi colleghi di Francoforte vengano autorizzati a godere di quel meritato e lungo riposo che stanno già godendo personaggi del Calibro di Chuck Prince III, Angelo P. Mozilo e la lunga schiera di Chairman e Chief Executive Officers che, peraltro lautamente liquidati, stanno affollando i resort esclusivi di tutto il mondo, o le nevi della ridente località montana austriaca di Gstaadt, in quanto esenti per censo e status dalla frequentazione delle panchine o degli alquanto affollati uffici di collocamento ai quali hanno destinato allegramente centinaia di migliaia di loro meno fortunati collaboratori.
Un meritatamente scarno comunicato della Banca d’Italia ci informa degli argomenti del sereno e franco colloquio che si è svolto, nel giorno dedicato dalla Chiesa Cattolica al ricordo di San Valentino e dagli uomini e dalle donne del pianeta, comunque e liberamente tra loro combinati, alla celebrazione dei sentimenti, tra il relativamente giovane Governatore della nostra Banca Centrale ed una pattuglia di sei massimi esponenti operativi di altrettanti importanti gruppi creditizi italiani, argomenti, peraltro, già ben evidenziati nel pubblicizzato ordine del giorno, anche se, almeno tra le righe, lo stesso comunicato fa capire che si è trattato più che altro di un lungo discorso di Mario Draghi , più che altro una dotta e severa lezione condita di ammonimenti e di iniziative più o meno unilaterali, come è doveroso che sia, della sempre più agguerrita Vigilanza, agli alquanto silenti e preoccupati suoi ospiti.