Un nuovo uno-due si è abbattuto ieri sui già frastornati operatori del mercato finanziario statunitense e l’occasione, stavolta, è stata rappresentata dalla diffusione pressoché simultanea di due importanti rapporti mensili, il Philadelphia Fed Index (-24 punti contro i –20,9 di gennaio ed un consensus ottimistico che prevedeva “soltanto” –10) ed il Leading Indicators del Conference Board (-0,1, come in dicembre), il primo relativo al mese di febbraio ed il secondo al mese di gennaio, in quanto entrambe le rilevazioni indicano inequivocabilmente il netto peggioramento delle condizioni economiche attuali e di quelle prospettiche dell’economia statunitense, rivelando, almeno il Leading Indicators, significative revisioni al ribasso dei dati diffusi in precedenza.
Anche il meno strategico dato sui nuovi sussidi settimanali si è salvato solo grazie al netto peggioramento, in sede di revisione, del dato diffuso la settimana scorsa, ma si mantiene a livelli molto elevati rispetto alla media settimanale registrata nei mesi scorsi, mentre non accenna a diminuire lo stock di sussidi.
La reazione dei mercati azionari ed obbligazionari statunitensi a queste ulteriori e significative brutte notizie - così come il peggioramento delle previsioni della Fed su crescita, prezzi ed occupazione diffuse mercoledì in contemporanea con un dato dei prezzi al consumo che, anche stavolta, senza il giochetto statistico e poco significativo per i consumatori degli ex food ed ex energy, si mantiene saldamente al di sopra del 4 per cento – non poteva che essere negativa, con nette flessioni dei tre indici azionari principali ed il contestuale rialzo dei prezzi dei Treasury Bonds, mentre l’oro ed il petrolio e buona parte delle materie prime continuano a macinare record.
Quello delle revisioni sempre più significative dei dati diffusi in precedenza, normalmente in peggio, inizia, peraltro, ad essere un vero problema e, non a caso, la maggior parte dei commentatori di vicende economiche basa le proprie valutazioni sul consensus pubblicato in precedenza, anche se segnalo che vi è qualche aggiustamento post annuncio del dato di turno anche delle stime diffuse prima dell'annuncio stesso.
Ben più significativi dei giochetti statistici e degli aggiustamenti delle previsioni, tuttavia, sono gli effetti che stanno avendo sulla chiarezza e traparenza dei conti delle banche e delle compagnie di assicurazioni statunitensi, ma non solo, l’influenza che i cosiddetti profitti di carta stanno esercitando sui bilanci dei due ultimi trimestri del 2007 e, ovviamente, su quelli dell’intero esercizio relativo al 2007, in quanto l’applicazione del FAS 159 sta complicando veramente la vita delle agenzie di rating, degli analisti e dei commentatori, anche perché è spesso veramente difficile districarsi tra la realtà e l’apparenza di bilanci che, anche al lordo di queste vere e proprie distorsioni contabili, restano, nella maggior parte dei casi, a livelli disastrosi.
Ricordavo ieri l’accurato articolo del redattore non embedded di Fortune, Roddy Boyd, che, pur limitandosi a fare le pulci al bilancio del quarto trimestre e dell’intero esercizio 2007 del Credit Suisse, di recente afflitto da un buco da 2,85 miliardi di dollari dovuto ai soliti traders infedeli o perlomeno distratti, rilevando che, grazie alle comode previsioni del FAS 159 statunitense, aveva contabilizzato come ricavi il minor valore, in termini di mark to market, sui titoli della finanza strutturata in portafoglio, ricavi per oltre un miliardo di dollari, poneva una questione più generale, in quanto si tratta di una prassi pressoché generalizzata tra le banche statunitensi e le banche globali che operano in quello che rimane il più grande mercato finanziario del pianeta, del tutto incuranti delle reprimende di Moody’s, che, a sua volta, rimane la principale agenzia di rasting e la cui decisione di non considerare, ai fini delle sue valutazioni, questi giochetti, sia pure legali, non potrà che essere prontamente seguita dalle altre due agenzie di rating sue dirette rivali, anche perché sono, a loro volta, tutte e tre nel mirino dei governi e delle banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati che rimproverano loro comportamenti altrettanto disinvolti nelle valutazioni generose dei titoli della finanza strutturata e dei loro emittenti.
Capisco perfettamente che, per il lettore, queste possano apparire preoccupazioni eccessive basate su tecnicalità apparentemente ininfluenti, ma ricordo che per superare l’influenza dei cosiddetti interessi moratori sui conti economici delle banche italiane, finti ricavi a loro volta chiamati profitti di carta, ci volle un lungo dibattitto e trascorse molto tempo prima che vi si ponesse rimedio, il tutto a danno non solo della corretta rappresentazione in bilancio dei fatti di gestione, ma anche della trasparenza, rendendo tutto un po’ indistinto quando, dai comunicati pesati al bilancino relativi ai prospetti ufficiali, si passa a quel vero e proprio tritacarne rappresentato dalla rappresentazione che degli stessi viene fornita dalla stampa specializzata e non, embedded o meno.
Ma quella che sta iniziando a serpeggiare ai piani alti delle banche e delle compagnie di assicurazioni di tutto il mondo è una preoccupazione ben più fondata e di dimensioni tali da rischiare di togliere il sonno a quei presidenti ed a quegli amministratori delegati che, almeno sino a qualche tempo, erano convinti che, in fondo, i bilanci trimestrali e quelli annuali fossero materia di pertinenza e di responsabilità di coloro che li redigono e di quella figura chiamata Chief Financial Officer o direttore finanziario, a seconda delle latitudini, nonché della sostanziale esattezza dei dati in essi rappresentati.
Purtroppo per queste spesso strapagate figure, lo sviluppo sempre più spasmodico di quelle entità chiamate ad operare nel Corporate & Investment Banking e quel processo di vera autonomizzazione che ha caratterizzato le CIB in questi ultimi anni, in alcuni casi decenni, ha mutato radicalmente la situazione e ha infranto la tranquillità di quelli che, spesso solo per comodità rappresentativa, vengono considerati i veri vertici aziendali, anche perché, ragionando anche solo in termini di contributo al risultato reddituale complessivo, è spesso difficile capire se conti di più il capo della CIB o il CEO della banca di cui questa è espressione.
Il problema diviene ancora più complesso se si sposta l’angolo visuale dal Chairman, dal CEO o dallo stesso Board of Directors, a quello sempre più inquietante di cui dispone lo stesso responsabile della CIB, in quanto, anche senza scomodare il caso Socgen o l’infinita catena di scandali che lo hanno preceduto, è evidente che neanche questa figura in apparenza così potente è, al giorno d’oggi, realmente in grado di giurare sull’esattezza della rappresentazione dei dati che gli vengono forniti dalle funzioni che a lui rispondono, dati spesso elaborati in base a complicatissimi modelli matematici che hanno a riferimento titoli molto più complessi degli stessi modelli che dovrebbero procedere alle stime, il che rende più comprensibile lo sfogo di Sarkozy, quando ha di recente detto, dall’India, che il mercato finanziario è impazzito.