mercoledì 13 febbraio 2008

Il leone di Omaha affonda le compagnie monoline


Seguendo come da copione il suo stile abituale, Warren Buffett, meglio noto come il leone di Omaha (Nebraska), ha sferrato ieri un’acuminata zampata sul sofferente mondo delle compagnie di assicurazione monoline, quelle, per capirci, specializzate nel fornire garanzie alle emissioni di bond di vario genere e natura, inclusi quei titoli della finanza strutturata che ormai non vuole più nessuno, ma anche delle obbligazioni emesse dai municipi, contee e stati federali, emissioni che stanno andando sempre più a vuoto e che sono fondamentali per la sopravvivenza degli “enti locali” statunitensi, come lo sono per le omologhe entità presenti in tutti i paesi industrializzati.

Dopo aver costituito, a cavallo delle festività natalizie, una compagnia specializzata nuova di zecca e fatto un po’ di shopping nel settore al di qua ed al di là dell’Atlantico, Buffett, ottenuta a tempo di record la licenza ad esercitare l’attività di assicuratore e riassicuratore dalla più che disponibile autorità di vigilanza dello Stato di New York, ha atteso sornione per qualche settimana che le sempre più spaventate società di rating effettuassero o minacciassero i downgrade delle principali compagnie monoline, MBIA ed AMBAC solo per citare le prime due, che sfumasse l’interesse dello squalo Ross per l’acquisizione di Ambac, per offrirsi benignamente come l’acquirente, selettivo as usual, di assetts per 800 miliardi di dollari (550 miliardi di euro circa al cambio di ieri), sapendo perfettamente che sarà in grado di spuntare prezzi di assoluto saldo dalle ormai preistoriche compagnie preesistenti.

Tale, peraltro, è stata la valutazione del mercato che ieri, altrettanto prevedibilmente ha spinto al ribasso le quotazione di MBIA ed Ambac del 15 per cento rispetto alle quotazioni del giorno precedente, avvertendo nettamente che quella suonata dall’anziano ma sagace Guru di Omaha era né più né meno che la classica campana a morto per il gruppetto di testa del comparto, quelle sei compagnie che necessiterebbero di un afflusso di capitali che va dagli 80 ai 200 miliardi di dollari e che ancora non sono riuscite ad ottenere dalle principali banche statunitensi neanche un prestito di emergenza di appena 15 miliardi da dividersi, peraltro, in quote molto ineguali tra di loro.

Non molto tempo fa, avevo citato Buffett e Soros, due personaggi molto diversi tra di loro per formazione, gusti ed ambito operativo, come i due rari esempi di capitalisti che potrebbero, nell’attuale tempesta perfetta, svolgere un ruolo non dissimile da quello che ebbe ad interpretare, nella precedente tempesta perfetta del 1907, l’ormai mitico John Pierpoint Morgan, anche se a quei tempi fu necessario un transatlantico, il Lousitania, letteralmente carico di lingotti d’oro, per dare sostegno agli assegni che distribuì tra gli agenti di borsa, con lo scopo di permettere a Wall Street di non chiudere in anticipo i battenti per l’assoluta assenza di liquidità ma, ancor di più, per l’assoluta mancanza di acquirenti di quei pezzi di carta rappresentativi di quote parti di aziende del cui valore, nel panico dominante in quei giorni, nessuno aveva neanche la più pallida idea.

Visitando i siti finanziari specializzati statunitensi, capita spesso di imbattersi nel riquadro pubblicitario della Berkshire, il fondo di investimento fondato oltre mezzo secolo fa da Buffett, cone le storie di persone che hanno raggiunto ricchezze da capogiro, investendo decine o centinaia di migliaia di dollari agli inizi di quell’avventura, accompagnati dalla doverosa avvertenza che nessuno, nemmeno Buffett, può garantire simili performance per il futuro.

E’ di dominio pubblico il fatto che, alla base di questa storia di successo, vi è una scelta oculata, ma anche in qualche modo fortunata, delle compagnie in cui investire, che devono non solo avere una lunga e rispettabile tradizione, ma anche solide quote di mercato e che, sotto lo stimolo che lo stesso Buffett imprimeva a spesso recalcitranti consigli di amministrazione, miglioravano notevolmente sotto il profilo gestionale e avendo come stella polare un’ottica di medio lungo periodo che è esattamente il contrario della logica imperante di budget con un orizzonte al massimo annuale e soggetto a frequenti rimaneggiamenti in corso d’opera.

Così come è noto il disinteresse, se non la vera e propria insofferenza, del finanziere di Omaha, per tutto quello che non è facile comprendere, soprattutto per quello che non ha un senso logico, con particolare riferimento a quel mondo delle dot.com e delle avventure imprenditoriali in genere, che il nostro vedeva come le fantomatiche miniere di oro o diamanti che nel diciannovesimo secolo ridussero sul lastrico una vasta moltitudine di creduloni, spesso ingannati da un vero e proprio esercito di autentici imbroglioni e truffatori, un’orrida genia che, da allora, attraverso un altrettanto esercito di emuli, ha continuato ad operare nello stesso modo, cambiando solo ambito di attività e tecniche di vendita.

D’altra parte, la reazione dei tre principali indici azionari statunitensi alla notizia è illuminante in tal senso, in quanto, alla reazione scoppiettante del DJ 30, si è accompagnato il tono depresso e la chiusura in assoluto pareggio di quel Nasdaq Composite dal quale Buffett si è sempre tenuto alla larga, implicitamente preconizzando lo scoppio della relativa bolla speculativa, una bolla che scoppiò tragicamente tra il 2000 ed il 2001, passando nel volgere di pochi mesi da un livello di oltre 5.000 punti ad un livello di oltre due terzi inferiore, con le conseguenze che ognuno può immaginare da solo.

Siccome tutto il mondo è paese, non stupisce la notizia, riportata più o meno da tutti i quotidiani, che un tribunale italiano ha condannato Banca di Roma, già controllata di Capitalia e attualmente parte integrante di Unicredit Group, a restituire 223 milioni di euro a Cirio SpA, somme concesse alle società estere del gruppo Cagnotti ed incamerate, a giudizio dei magistrati indebitamente dalla banca attraverso la medesima Cirio, attraverso la vendita di Eurolat alla Parmalat di Calisto Tanzi, ovviamente la somma indicata è quella iniziale, per cui, con le dovute rivalutazioni, il conto finale addebitato a Banca di Roma-Capitalia-Unicredit Group ascende alla più che rispettabile somma di 300 milioni di euro circa, somma che dovrebbe consentire un’ulteriore tranche di rimborso agli sfortunati sottoscrittori di obbligazioni Cirio, a prescindere dal fatto che fossero in origine italiane o esterovestite.

Giornata fortunata, quella di ieri, anche per il Fisco italiano che chiude la transazione con il pilota Valentino Rossi che si impegna a pagare 35 dei 120 milioni di euro che gli erano stati richiesti e si appresta, attraverso il via libera alla vendita della torinese IPI, a mettere le mani anche sui 70 milioni che erano stati richiesti a Danilo Coppola, noto immobiliarista in seri guai giudiziari ed ex scalatore, in compagnia di altri imprenditori del settore, della Banca Nazionale del Lavoro.