martedì 26 febbraio 2008

Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?


In nessuna branca del sapere umano, come in quella relativa alle teorie economiche e alla realtà fattuale degli eventi economici stessi, è vero l’assunto che il bicchiere lo si può sempre vedere mezzo pieno o mezzo vuoto, con quello che in termini di speranze o delusioni ne può derivare.

Credo che sia proprio il caso del tanto atteso dato sulle vendite di case esistenti negli Stati Uniti d’America nel mese di gennaio, un dato che si è tradotto nell’ennesima flessione significativa, cifrata al -0,4 per cento su base mensile per le vendite sia di case individuali che di appartamenti in condomini, e che ha portato il tasso annualizzato di vendite a 4,89 milioni di unità, al livello, cioè, più basso dal 1999.

Con riferimento, invece, al prezzo mediano, il mese di gennaio ha segnato una flessione a 201 mila dollari, un valore in calo del 4,6 rispetto a quello segnalato nel gennaio dell’anno che si è appena concluso, mentre lo stock di case invendute ha raggiunto un livello tale che occorrerebbero oltre dieci mesi per venderle tutte, ammesso che si riuscisse a mantenere l’attuale ritmo di vendite mensili, un tempo pressocché doppio di quello che sarebbe stato necessario negli anni del boom edilizio bruscamente interrotto a fine 2006.

Stanno prevalendo, mentre scrivo questa puntata del Diario, gli operatori che preferiscono vedere il bicchiere mezzo pieno, convinti come sono che più in basso di così le vendite ed i relativi prezzi non possano andare e che, quindi, non è il caso di farsi prendere dal panic selling alla vigilia di un trend rialzista tante volte invocato, quanto, almeno sinora, mai apparso all’orizzonte, con la conseguenza che, invece di stramazzare, i listini azionari stanno sostanzialmente tenendo, tenuti su anche dalla brillante performance mattutina del Nikkei 225 e dalla positiva intonazione mantenuta in seguito dai mercati azionari europei, area euro e non.

Appartendo da tempo alla schiera dei pessimisti, non mi dilungo sui motivi a sostegno di questa seconda tesi, anche perché l’analisi degli andamenti economici, ed in particolare degli eventi che si susseguono nel mercato finanziario globale, mi hanno insegnato che, per parlare di un inversione di un trend, è necessario attendere almeno che si ripeta qualche osservazione positiva di un fenomeno, anche perché, se è sempre vero che una rondine non fa primavera, è proprio il caso dire che, almeno con riferimento al settore immobiliare ed a quello correlato del mortgage statunitensi, di rondini all’orizzonte non se ne è vista, da lunga pezza, nemmeno una.

Mentre ancora non pervengono conferme del deal che permetterebbe, grazie al sostegno generoso delle maggiori banche globali, ad Ambac di evitare l’onta del taglio del rating massimo sinora strappato alle sempre più riluttanti Moody’s e Standard & Poor’s e sempre più tentate di seguire l’esempio coraggioso offerti il 18 gennaio scorso dalla rivale Fitch, nuove nubi si addensano all’orizzonte delle semipubbliche Fannie Mae e Freddie Mac, nei confronti delle quali il mercato potrebbe essere tentato di andare a vedere quel colossale bluff rappresentato dall’equiparazione operata dalla Fed della montagna di loro obbligazioni (3.200 miliardi di dollari solo per quelle denominate government sponsored enterprises, alle quali manca, come è a tutti noto, una vera e propria garanzia da parte del Tesoro USA.

Né aiuta anche i più speranzosi nella forbice salvifica del disinvolto Ben Bernanke la doccia fredda giunta da un livello dei tassi di inflazione che, sia nella versione onnicomprensiva che in quelle depurate da energia ed alimentari (ricordo, al proposito, la secca opinione di un Nobel per l’economia domiciliato proprio negli USA, che trovava del tutto originale procedere a sottrazioni di capitoli di spesa vitali per quel grande paese, quasi che si potesse non mangiare o non spostarsi con il sacro mezzo di locomozione privato), è ormai ai massimi dal 1991 e lega le mani, o meglio dovrebbe legarle, anche ad uno che sembra proprio aver giurato di giungere sino ai livelli toccati dal Maestro Alan Greenspan.

Ma gli operatori del mercato finanziario, rotti alle intemperie delle tempeste perfette e di quelle di minore intensità, continuano ostinatamente a ritenere che l’anello debole della catena continui ad essere identificato con il settore finanziario e che questo sia vero in egual misura sia al di qua che al di là dell’Atlantico, anche se, almeno per oggi, ha premiato le banche basate in Europa, mentre ha deciso di punire con fermo accanimento quasi tutte le entità operanti negli Stati Uniti, con una flessione che, al momento, si avvicina ai due punti percentuali per il settore finanziario nel suo complesso, ma con punte significativamente più elevate per le banche di dimensioni maggiori, per quelle leader nel disastrato settore del mortgage e per quelle compagnie monoline alle quali non basta la croce rossa promessa dalle maggiori banche globali.

Altrettanto sensibili al prolungamento dello stato di difficoltà iniziato ormai oltre sei mesi orsono, le banche continuano a mostrarsi oltremodo diffidenti su quel particolare mercato che è rappresentato dall’interbancario, dove, in particolare in quello relativo all’euro, si assiste ad un lento peggioramento delle condizioni che i market makers impongono per le scadenze, quelle ad uno ed a tre mesi, più importanti per i destinatari di finanziamenti indicizzati all’una od all’altra scadenza, circostanza che segnala come, nonostante gli sforzi assidui delle banche centrali, in particolare di quella con sede a Francoforte, tutti sono in attesa che si sistemino le partite aperte con le difficoltà di un numero, per ancora ristretto, di banche europee, banche che sono ancora in attesa di una soluzione chiara e trasparente ad opera di una banca dalle spalle sufficientemente grosse da accollarsi i guai dell’acquisita.

Non aiuta, peraltro, la “temporanea” nazionalizzazione di Northern Rock, evento segnaletico dell’estrema ritrosia delle banche inglesi, dell’area dell’euro e di quelle di ogni altra parte del mondo a gettare il cuore oltre l’ostacolo, il tutto aggravato dalla scoperta che la parte migliore dei mutui della banca britannica, per un importo di 45 miliardi di sterline, si trovano non nei suoi bilanci ma sono stati trasferiti, non credo proprio nottetempo, in un comodo ed accogliente paradiso fiscale dell’isola di Jersey, in un fondo privato dal suggestivo nome di Granite.