Credo proprio che sia difficile rendersi conto di quanto siano profonde e rilevanti le mutazioni del pensiero economico attualmente in corso negli Stati Uniti d’America di fronte al fallimento di quella forma di pensiero trionfante fino a pochi mesi orsono, la convinzione, cioè profonda e vincente che vedeva la deregolamentazione come la spinta propulsiva che avrebbe favorito una crescita indefinita della ricchezza collettiva ed individuale, per raggiungere la quale era sufficiente non disturbare il manovratore, a sua volta manovrato dalle libere forze del libero mercato, di per sé tendente ad una sorta di resuscitato ottimo paretiano, ma non mancava chi sentiva la nostalgia di quel banditore di Walras al colpo del quale tutti i prezzi dei fattori automaticamente trovavano il loro equilibrio (suggestione resa in qualche modo attuale dagli sviluppi della tecnologia informatica).
Dalle macerie finanziarie, economiche e sociali derivanti dal recente scoppio contemporaneo di almeno tre bolle speculative, causa ed effetto simultanei della tempesta perfetta in atto, sta faticosamente emergendo, o, sarebbe più corretto dire, riemergendo, un approccio teorico che tiene in maggior conto il concetto di limite, sia esso fisico, di sostenibilità finanziaria o, più semplicemente sociale, e quello di regolamentazione, termine che, almeno a partire dal 1985, era visto come sinonimo assoluto di ingerenza dello stato federale, o locale, nel libero agire del mercato e di quei top manager che, nell’opinione popolare largamente manipolata dal pensiero unico dominante, ne sapevano certamente di più di quel branco di politicanti che, almeno con riferimento al Senato statunitense, godevano di un tasso di popolarità che, paradossalmente, era inversamente proporzionale alla loro longevità di carica che non ha confronti nelle camere alte dei maggiori paesi maggiormente industrializzati.
Ora che è risuonato il fischio che segnala perentoriamente che the game is over, stiamo assistendo al più rapido ripudio delle ideologia economica precedentemente in voga, un ripudio rispetto al quale quello di pietro nei confronti del Cristo appena incarcerato è caratterizzato da un lag temporale di gran lunga maggiore, anche se va reso omaggio, per una coerenza che fa premio sulla indiscutibile stupidità, a quello sparuto drappello di economisti che continuano a ritenere che ogni ingerenza dello stato, anche volta al condivisibile intento di evitare che milioni di famiglie americane siano costrette a lasciare nella casa messa all’asta i risparmi ed i sogni di una vita, è profondamente sbagliata e che la stessa produrrà più danni di quanti si verificherebbero in assenza dell’intervento stesso.
Deregolamentazione, globalizzazione e finanziarizzazione non sono, peraltro, che fenomeni strettamente interrelati tra di loro e tutti largamente informati di quella vera e propria deriva ideologica che è stata rappresentata dai trionfi, anche sul piano governativo, di quel movimento ideologico e militante noto come la Scuola di Chicago, un movimento che ha visto il radicalismo di Milton Friedman letteralmente impallidire rispetto all’integralismo dei suoi epigoni, spesso neanche dotati del strumentario tecnico e del suo spessore dottrinario, un movimento talmente vincente che da riuscire ad influenzare fortemente anche il pensiero degli economisti che si richiamavano apertamente all’approccio keynesiano o a quello che, pur essendo dichiaratamente liberale, riteneva il termine liberista al pari di una bestemmia.
L’inversione a 180° della maggior parte degli economisti statunitensi (chissà se la scarsa stabilità di impiego degli accademici statunitensi, come è noto pochissimi di loro sono insediati su una chair a vita, influisce su questo loro muoversi un po’ come un gregge) non rappresenta, peraltro, una novità, in quanto si è già verificata ogni volta che la realtà ha mandato letteralmente in frantumi le loro pompose e matematicamente ben corredate teorie, ed ecco che assistono senza battere ciglio alla vera e propria rottura delle regole del gioco e l’infrangersi sui marosi della tempesta perfetta dei sacri principi quali quello della ineluttabilità della severa punizione del moral hazard, la possibilità, anzi la necessità, che le aziende in difficoltà possano, anzi debbano, fallire, ma, soprattutto, che i massimi regolatori del mercato creditizio, le banche centrali, non smettano i panni dell’arbitro e si schierino in campo quasi fossero il 12° giocatore della squadra di calcio che sta soccombendo all’odiata avversaria, in questo caso la crisi finanziaria ed i suoi alquanto drammatici effetti.
L’epilogo della vicenda della britannica Northern Rock, quelle delle medie banche tedesche affondate dai primi marosi dell’agosto dell’anno scorso, il gigantesco salvataggio dell’orso di Stearns ad opera dei nipotini dei Morgan e dei Rockfeller, l’apertura, da ieri anche in Gran Bretagna, di quelle discariche a cielo aperto nella quale giacciono centinaia di miliardi di dollari di titoli della finanza strutturata depositate a garanzia dalle banche di ogni ordine e grado, ricevendone in cambio, e per tempi sempre più lunghi, fruscianti e molto richiesti titoli di stato che le banche centrali forniscono prontamente loro, peraltro ad un tasso di interesse assolutamente irrisorio, ebbene tutto questo rappresenta la rappresentazione plastica del fatto che le regole sono, al più, paragonabili a quelle favole da raccontare ai nipotini davanti al fuovo scoppiettante nel corso delle cupe e tempestose serate di inverno.
Per non perdere del tutto la faccia, si dà incarico al più giovane tra i grandi banchieri centrali, il nostro Mario Draghi, affinché, dopo un’opportuna pausa in digiuno e solitudine sul Monte Sinai di turno, incida su pietra le nuove tavole della legge e, per non farlo sentire troppo solo, il suo ex capo in Goldman Sachs, Henry Paulson, che da ministro del Tesoro statunitense, sforna un librone di oltre 200 pagine, ampiamente annunciate e strombazzate dai media, prevedendo un percorso riformatore che impegnerà gli eletti dal popolo USA per i prossimi due o tre mandati, impedendo loro di varare poche ed efficaci misure per evitare che a pagare gli errori delle Investment Banks e delle CIB delle banche globali siano, come purtroppo sempre accade, i soliti noti che non è difficile individuare nei ceti meno abbienti e in quella classe media in via di impoverimento che, per loro fortuna, dispongono di molti più voti di quanti ne possono esprimere i 10 milioni crica di americani più ricchi.
Nelle favole, è il bambino innocente, ma anche un po’ malizioso, che svela tutto e dice ad alta voce che il re è nudo, ma, stavolta, è toccato ad un navigato economista, nuovamente, salvo sorprese, ministro dell’Economia del nostro Paese, quale è Giulio Tremonti, interpretare questo ruolo, spingendosi, nel ludibrio generale dei suoi colleghi e dei potenti del mondo (a volte, sono esattamente la stessa cosa), ad affermare che il rapporto finale del Financial Stability Forum, presieduto, appunto, da Mario Draghi, prevede una terapia inefficace, in quanto sarebbe come dare un’aspirina ad un malato grave se non allo stato terminale, il che, anche alla luce del suo scontro al calor bianco con il predecessore di Draghi, non lascia presagire nulla di buono nei rapporti prossimi venturi tra i due.
L’unica coincidenza che ho avuto con Tremonti è quella di aver collaborato per tre anni con il quotidiano il Manifesto come aveva fatto lui in precedenza, ma credo proprio che, come accade statisticamente almeno una volta nella vita, stavolta abbia perfettamente ragione lui!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press www.flipnews.org