Non si può non concordare con le parole del Chief Executive Officer di Bank of America, la seconda banca commerciale statunitense che si è assunta il gravoso incarico di traghettare verso la salvezza la disastrata Countrywide, che, di fronte ai pessimi dati realtivi al primo trimestre 2008 della sua banca ha affermato che gli stessi “chiaramente non sono all’altezza delle nostre aspettative”.
Come dargli torto, alla luce di un vero e proprio crollo degli utili, calati del 77 per cento rispetto a quelli registrati nello stesso periodo del 2007 !,21 miliardi di dollari contro i 5,26 del primo trimestre dell’anno scorso), mentre anche i ricavi, a causa delle ingenti svalutazioni effettuate, calano di oltre un miliardo di dollari rispetto a quelli che avevano dato il sorriso ai top manager non più tardi di dodici mesi orsono.
Non vi è dubbio che l’attenzione degli analisti e degli operatori si sta spostando dalle Big Four alle banche commerciali, anche perché dopo la mega perdita per il secondo trimestre consecutivo registrata dal gigante Citigroup, i risultati ben poco brillanti di Wachovia Bank e di Well Fargo, non ci voleva proprio il crollo degli utili ed il forte ridimensionamento dello stessa “fatturato” di Bank of America, entrambi, peraltro, ben al di sotto delle già nere attese degli analisti che, pure, si sono ormai ben attrezzati nel giochetto di rendere sempre più nere le loro previsioni per favorire il rimbalzo delle quotazioni della banca di turno, rimbalzo che, almeno questa volta, non c’è assolutamente stato, anzi, Bofa è riuscita a portare pesantemente verso il basso non solo se stessa ma l’intero comparto finanziario che sembrava destinato, nelle ultime sedute, ad un tentativo di mini rimbalzo.
Giunti a questo punto della stagione di annunci trimestrali da parte delle Investment Banks e delle banche globali e non, mi permetto di osservare sommessamente che sarebbe il caso che le stesse dichiarassero che non hanno fatto ricorso alle previsioni dei vari FAS che prevedono la trasformazione delle perdite su titoli in rotondi ricavi, anche perché la sempre più inascoltata Moody’s ha chiaramente detto di non considerali opportuni e che netterà implacabilmente i loro effetti dai conti che vengono presentati, peccato che di tale perentorio consiglio i disperati banchieri statunitensi ed europei non sappiano proprio che farsene, per il semplice motivo che, operando in modo trasparente, i risultati delle trimestrali da brutti quali sono si traformerebbero inevitabilmente in pessimi, ballando tra l’uno e l’altro approccio differenze nell’ordine di centinaia di miliardi di dollari.
Nel frattempo, come largamente annunciato urbi et orbi nei giorni scorsi, anche la Bank of England ha aperto la sua maxi discarica destinata ad ospitare, per tempi più o meno lunghi, i titoli della finanza strutturata ospitati on e/o off balance sheet nei bilanci delle banche britanniche, titoli scambiati come se fossero buoni in cambio di fruscianti titoli del Tesoro britannico, allo scopo dichiarato di evitare nuove Northern Rock e relativa nazionalizzazione che risulterebbe poco agevole e sostenibile se ad incappare nelle eventuali difficoltà fossero giganti del calibro di Hong Kong Shanghai Banking Corp., di Royal Bank of Scotland o di Barclays, tutte distanti anni luce per assett e impegni dalla tecnicamente fallita ed allora ottava banca del paese su cui regna felicemente Elisabetta II che ha affidato il governo al sempre più desolato ed a picco nei sondaggi Gordon Brown, un uomo che ancora si maledice per aver fatto di tutto per spingere sulla porta il suo ben più fortunato predecessore Tony Blair.
L’entità dei fondi a disposizione del riciclaggio dei titoli della finanza strutturata, ove espresso nella sempre più svalutata valuta statunitense, si aggira intorno ai 100 miliardi di dollari, dato che, ovviamente, cresce di ora in ora, pur essendo la sterlina ai suoi minimi di periodo ma ancora in grado di outperformare sul dollaro, tutto questo mentre le corazzate delle banche centrali continuano a sparare bordate contro vento per cercare, alquanto inutilmente, di risollevare il biglietto verde, riuscendo, al più, anche grazie al rinnovato attivismo del neo Governatore della Bank of Japan, a determinare un relativo decoupling tra le due principali alternative alla valuta statunitense.
Mentre si discute sempre più animatamente sulla possibilità di lasciare i vari Libor al loro destino, in quanto i loro livelli sempre più elevati e caratterizzati da spread sempre più ampi rispetto ai relativi tassi di riferimento sono chiaramente troppo influenzati dagli altrettanto crescenti guai delle banche partecipanti, sia l’euribor che i libor su dollaro e sterlina proseguono nella loro lenta ma inesorabile marcia di avvicinamento agli indesiderati, sia dai debitori che dalle banche centrali, record segnati nel dicembre dell’anno scorso.
Credo proprio sia il caso di ricordare che, nonostante le gigantesche inondazioni di liquidità effettuate dalle ormai esauste sale operative della BCE, della Federal Reserve e delle altre malcapitate banche centrali, i tassi interbancari, con riferimento alle cruciali scadenze ad uno e a tre mesi, non sono mai riusciti a tornare a differenziali sui tassi di riferimento inferiori a quelli segnalati l’ormai celebre 9 di agosto del 2007, il giorno nel corso del quale la liquidità si prosciugò completamente prima del maxi intervento della BCE, per la semplice ragione che nessuna delle 46 banche operanti quali market maker sull’euribor era più disponibile a fidarsi delle sue spesso blasonate consorelle, il tutto mentre un fenomeno analogo si registrava sui mercati interbancari aventi a riferimento il dollaro e la sterlina.
Mentre il nuovo ministro italiano dell’Economia (è vero che a Giulio Tremonti manca ancora l’effettuazione del terzo giuramento nelle mani del Capo dello Stato, ma si sa bene che si tratterà di una pura formalità per l’originale e vulcanico economista, nonché vice presidente di Forza Italia, di recente trasformatasi in PDL) non perde tempo nello sparare ad alzo zero sul lavoro del Governatore della Banca d’Italia, peraltro da lui stesso voluto nel dicembre del 2005, appiccicando l’etichetta di aspirina al frutto del faticoso ed impegnativo lavoro di Draghi e della creme della creme degli esponenti delle banche centrali riuniti nel Financial Stability Forum, non mancano altre voci dissenzienti di fronte ad un approccio che presenta non solo tempi di attuazione dei provvedimenti proposti francamente troppo lunghi, ma anche l’assenza di alcuna forma di punizione di quel moral hazard che ha caratterizzato il mercato finanziario globale per un quarto di secolo almeno.
Nessuno, peraltro, sembra più prestare attenzione ai profit warning provenienti da quel Fondo Monetario Internazionale ormai in preda ad una trasformazione genetica da soporifero ente di ricerca a covo di Cassandre in lotta per mantenere posto e status sempre più minacciati da Strauss Kahn, che proprio oggi annunciano, nell’ambito delle ormai celebri previsioni di 945 miliardi di dollari di perdite, perdite per poco meno di 50 miliardi di dollari per le già ansiose e preoccupate banche europee, immagino che il Fondo parli di perdite ulteriori e che includa anche l’extracomunitaria UBS, in quanto, ad oggi, tale cifra sarebbe già stata abbondantemente superata e saremmo, quindi, di fronte a qualcosa che assomiglia al raddoppio del disastro attuale.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/