Ho notato, non senza una certa apprensione, di essere alla 170^ puntata del Diario della crisi finanziaria (tra speciali e numeri editi solo sul blog dovrebbero essere 180 circa) e non si scorgono all’orizzonte segnali che inducano a ritenere che la tempesta perfetta in atto stia volgendo al termine.
Eppure, nei poco meno di 200 giorni trascorsi dal 9 agosto dell’anno scorso, è accaduto veramente di tutto e si è tentato quasi di tutto, dagli interventi di dimensioni mai viste in precedenza effettuati dalle banche centrali in favore delle banche operanti sui mercati interbancari, agli interventi “controvento” volti a contrastare, invano, la liquefazione progressiva del dollaro, alle immaginifiche e quasi sempre fallimentari invenzioni del ministro del tesoro USA, Henry Paulson, alle riforme radicali, ma ancora sulla carta, delle regole di vigilanza sulle alquanto scapestrate entità che popolano il mercato finanziario globale, insomma se è proprio fatto non tutto ma, con sforzo generoso, proprio di tutto.
Eppure, se dagli sforzi immani compiuti da banchieri centrali ormai letteralmente sull’orlo di una crisi di nervi e dall’impegno altrettanto titanico dei ministri dell’economia passiamo ad osservare gli effetti, non è possibile non constatare che i tassi sul mercato interbancario statunitense, britannico o su quello dell’area euro sono appena al di sotto dei livelli minimi, soprattutto se espressi in termini di spreads rispetto ai tassi di riferimento ufficiali (il Libor a tre mesi sulla sterlina si discostava ieri di poco meno di un punto dal suo tasso di riferimento appena portato al 5 per cento dalla BoE), che l’euro quota a poco meno di 1,60 dollari e lo yen viene disperatamente tenuto appena al di sopra del livello di 100 yen per dollaro.
Le notizie che provengono, nel frattempo, dalle banche statunitensi o dall’extracomunitaria e globalissima UBS denotano segnali che sarebbero stati normalissimi nelle prime settimane della tempesta perfetta ma che sono veramente sconfortati quando manca poco allo scadere dei nove mesi dall’inizio di questo disastro, notizie nella maggior parte dei casi pessime e che non fanno distinzione alcuna tra le avventurose banche di investimento e quelle commerciali, né si scorgono situazioni più tranquille con riferimento alle entità medio piccole o a quelle saving and loans travolte poco meno di venti anni orsono da un vero e proprio terremoto che richiese un bailout nell’ordine delle centinaia di miliardi di dollari e che toccò non marginalmente l’allora molto più giovane George W Bush.
Soltanto ieri, la già colpita e quasi affondata Merrill Lynch, rispettando in peggio le già fosche previsioni degli analisti, ha annunciato un rosso trimestrale di pressoché identica dimensione dell’utile segnalato nello stesso periodo dell’anno precedente (-2,14 miliardi di dollari contro +2,26 miliardi), una perdita largamente dovuta a svalutazioni complessive per 6 miliardi di dollari, risultati a fronte dei quali il nuovo CEO ed ex presidente del NYSE, John Thain (quello del bonus di ingaggio da 15 milioni di dollari) non ha saputo far di meglio che annunciare l’ennesima ondata di licenziamenti che taglierà dal libro paga altre 4 mila persone ed informare a quanti avevano voglia di ascoltare la sua triste conference call che quello appena concluso era certamente il peggior trimestre di quelli da lui vissuti nei suoi 30 anni all’ombra del wall.
Anche se, come dicevo, i risultati di Merrill hanno battuto in peggio le previsioni degli analisti, pur tuttavia gli stessi hanno rappresentato un buy signal per il mercato, forse per il semplice motivo che per tre mesi almeno non dovremmo avere nuove notizie da Thain e compagni, a meno che il Who’s the next non tocchi questa banca in luogo delle altre superstiti tre entità appartenenti a quelle che si sono tristemente ridotte a Big Four.
Se corrispondessero al vero le drammatiche previsioni sulle perdite complessive per le entità operanti nel mercato finanziario globale rese note dal Fondo monetario Internazionale alla vigilia del più importante week end di questa tempesta perfetta e poche ore prima che il giovane Mario Draghi salisse in cattedra a Washington per dirne quattro a tutti, le perdite riferite alle sole banche sarebbero a poche decine di miliardi di dollari dal risultato finale, in quanto ne sono state già rese note per 230-240 miliardi contro i 280 previsti, mentre poco si sa dei 665 miliardi che l’FMI attribuisce agli soggetti, fondi pensione e di investimento in primis, ma temo realmente che non si siano stimate correttamente le interazioni e le interrelazioni esistenti tra i diversi soggetti operanti nel mare magnum del mercato globale.
Nelle puntate precedenti, riportavo un dato già di per sé eloquente sui Credit Default Swaps, quegli strumenti derivati nati per proteggere chi vi ricorreva dal rischio di fallimento di una controparte, ma rapidamente trasformatisi nell’arma fine di mondo, un dato che risaliva a poco tempo fa e che cifrava il nozionale dei CDS in 45 mila miliardi dollari, ma ho appreso ieri che, secondo dati più recenti, siamo giunti ad un nozionale di 72 mila miliardi di dollari, con una crescita che si aggira introno al 60 per cento in un breve lasso di tempo che è, in qualche e poco piacevole modo, del tutto self explaning.
La recente vicenda incorsa in una delle provincie dell’impero del leone di Omaha, Warren Buffett, costringendo alle dimissioni su due piedi un brillante CEO, mentre altri quattro ex top manager se la stanno vedendo brutta in un’aula di tribunale per vicende allo stato poco chiare, non hanno scalfito la credibilità dell’anziano finanziere, forte come al solito dei brillanti risultati del suo conglomerato, ma mi hanno fatto riflettere sul silenzio un po’ sinistro che circonda le tanto chiacchierate compagnie monoline, alcune nel frattempo hanno visto il loro precedente stellare rating giungere al livello dei titoli spazzatura, anche perché non vorrei proprio che si trattasse della classica quiete che precede inevitabilmente la tempesta, il che, visti i tempi…
Come spesso accade, ho appena citato uno dei miei due fari contemporanei nella tempesta perfetta, che mi tocca parlare dell’altro, il mitico finanziere di origine ungherese gorge Soros, l’uomo che affondò in un colpo solo la sterlina e la lira e che, secondo i maligni, starebbe pensando di ripetere (o, come dicono i solitamente bene informati, sarebbe già in pista) il colpaccio contro la valuta di Sua Maestà britannica, favorito dall’assurdo e persistente opting out che il governo Brown continua ad utilizzare per evitare la confluenza della sterlina nel porto sicuro dell’euro, un’ostinazione degna di miglior causa che espone realmente l’un tempo pregiatissima valuta ad essere esposta a tutti i venti della speculazione.
Ebbene, il buon Soros ha tenuto nei giorni scorsi una brillante conferenza in un paese appartenete alla terra dell’euro per dire che non vede proprio la possibilità per la valuta europea di soppiantare il dollaro come valuta di riserva internazionale o come standard prevalente per gli scambi commerciali, anzi, con piglio atlantico, si è spinto anche ad escludere la possibilità di un mondo basato sulle due valute, il dollaro e l’euro appunto, chiarendo, tuttavia, che non è che non veda la possibilità tecnica e probabilistica (che ci starebbero tutte), ma che lo confiderebbe un sistema altamente instabile.
Ricordo che il Diario è presente anche sul mio blog http://www.diariodellacrisi.blogspot.com/ , mentre il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/