giovedì 3 aprile 2008

The sooner you leave the better, Mr. Bernspan! (2)

Nella sua tanto attesa audizione davanti ai non proprio serafici senatori statunitensi, Bernspan non ha deluso le aspettative di quanti ritenevano altamente probabile un outing del mite professore di economia di Princeton temporaneamente prestato all’attività di indirizzo, vigilanza e regolazione del mercato più pazzo del mondo, quel mercato finanziario statunitense che, lo ricordo, rappresenta la componente principale del vasto e magmatico mercato finanziario globale.

Ebbene, il nostro ha finalmente ammesso la “possibilità” che gli Stati Uniti d’America possano vivere una fase di recessione nel primo semestre dell’anno di grazia 2008, un’eventualità che il professore aveva sinora categoricamente escluso, convinto come era che la sua azione, da molti definita panic cutting, in materia di tassi di interesse, di immissione di liquidità e di apertura a dismisura della porta di accesso della discarica dedicata alle banche di ogni genere affinché vi depositino tonnellate di titoli spazzatura valutati dalla Fed come se fossero ancora buoni, avrebbe ridato speranza e fiducia alle banche stesse e, di conseguenza, anche agli operatori.

D’altra parte, il nostro era anche molto fiducioso nell’operato del suo sodale Henry Paulson, il potente ex numero uno della potentissima Goldman Sachs da meno di due anni prestato alla politica nella veste di ministro del Tesoro, un uomo che, sia consentito dirlo, da settembre 2007 sembra non averne azzeccata una, infilando, come ho ricordato nelle due precedenti puntate, un tonfo dietro l’altro, per poi partorire lunedì scorso un monumentale progetto di riforma dell’attività di regolazione e di vigilanza dei mercati di oltre 200 pagine, un progetto che, per sua stessa ammissione, richiederà anni ed anni per essere approvato dal Congresso che uscirà dalle prossime elezioni e sotto la nuova presidenza degli USA che emergerà in novembre dalle urne.

Ma Bernspan è anche uno dei pochi abitanti del pianeta che continua imperterrito ad essere fiducioso sui meravigliosi effetti del piano di rimborso fiscale fortemente voluto dal presidente Bush, un piano che vedrà materializzarsi decine e decine di milioni di mini assegni che rappresenteranno, in maggio, una goccia nel mare delle esauste finanze delle famiglie americane, una parte non marginale delle quali ha, nel frattempo, perso la casa o perso il lavoro, ove, come in più di un caso, non li abbia persi entrambi.

Ma forse Bernspan non lo sa che i consumatori americani, la specie nota per la sua insaziabile voracità di beni essenziali e superflui, stanno conoscendo da molti mesi a questa parte una sorta di mutazione genetica che dalla specie delle cicale li sta, spero proprio non solo temporaneamente, trasformando in vere e proprie formiche, attente alle spese, pianificatrici di sempre più striminziti budget familiari, allergici allo zip zip delle carte di credito, donne ed uomini che hanno scoperto che il vincolo di bilancio così caro alle famiglie europee non è una parolaccia o segno di imperdonabile avarizia.

In un altro momento, i senatori gliela avrebbero anche fatta passare liscia, ma stretti dalle esigenze della campagna elettorale, pressati dai loro elettori e consapevoli, anche se abitanti tra le più che confortevoli mura di Capitol Hill, dei sempre più alti marosi della tempesta perdetta, non pochi di loro hanno aggredito, verbalmente si intende, il mite professore con non minore veemenza di quella che caratterizzava gli abitualmente satolli azionisti della svizzera UBS che, in una recente assemblea, hanno gettato le basi dell’uscita di scena dell’un tempo osannato presidente Ospel che non più tardi di due giorni fa ha rassegnato le dimissioni dopo l’ennesimo bagno di sangue del colosso creditizio elvetico dalle ambizioni assolutamente globali.

Ne cito uno per tutti, il sanguigno Ted Kennedy, dell’omonima e celebre casata che ha dato due morti alla causa democratica, che non ha mancato di sottolineare con un “what we are going to tell the states?” l’assoluto rifiuto di Bernspan di esprimersi sul travaglio che stanno vivendo gli stati che formano la federazione, stretti tra il meltdown del settore immobiliare e gli effetti sociali della crisi finanziaria.

Pochi tra gli intervenuti si sono astenuti dall’evidenziare che il focus principale dell’attività del duo Bernspan-Paulson è rappresentato dalle esigenze di Wall Street e, più in particolare, da quella di assicurare, costi quel che costi (ai contribuenti americani, si intende), il salvataggio delle Investment Banks, delle banche commerciali, delle compagnie di assicurazioni, anche di quelle non moniline echi più ne ha ne metta, fregandosene bellamente delle esigenze dei mutuatari, dei lavoratori a rischio di licenziamento, ma, soprattutto, non preoccupandosi in alcun modo di prendere provvedimenti volti a punire quello che è ormai quasi un eufemismo definire, alla luce dei più che disinvolti comportamenti emersi in questi mesi, azzardo morale.

Ma cosa volte che importi a coloro che operano all’ombra del wall delle milioni di procedure di foreclosure, dell’esorbitante numero di case messe materialmente all’asta, dei duecentomila posti nel settore e del pari numero previsto per i mesi a venire, di una flessione degli ordini all’industria che ormai si diverte a raddoppiare le già pessimistiche previsioni degli analisti, del crollo delle vendite di auto a causa della crescente difficoltà di ottenere il relativo finanziamento, del calo del 30 per cento delle richieste di mutui per l’acquisto della casa o per il rifinanziamento, per loro è importante soltanto piazzare presso gli investitori le sempre più astruse invenzioni degli apprendisti stregoni operanti nelle fabbriche prodotto delle investment banks e delle CIB delle banche globali, in quanto quelle locali sono ormai poco più che dei piazzisti dei prodotti finanziari elaborati da altri.

Non paghe del fatto che anche Bernspan, come aveva fatto il giorno prima Paulson, ha confermato ieri in una sede solenne quale è il Senato degli Stati Uniti che il rischio di una crisi sistemica quale poteva essere quella innescata dal fallimento dell’orso di Stearns val bene l’eventualità che, alla fine, a pagare il conto siano i contribuenti americani (anche se, ovviamente, il mite professore di Princeton si augura che ciò non sia proprio necessario, né, tanto meno, inevitabile), le banche beneficiate continuano a non fidarsi l’una dell’altra, come è ben testimoniato dall’ennesima lievitazione dei tassi interbancari registrata ieri.

Poiché è sempre più vero che tutto il mondo è paese, non desta stupore scoprire che poco meno di mezzo milione di mutuatari italiani siano in difficoltà per la continua lievitazione dei tassi sui loro mutui indicizzati proprio a quei tassi interbancari, nella versione ad un mese e a tre mesi, di cui sopra.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL del 19 c.m. è disponibile nella sezione video (alla voce videoinformazione) del sito Free Lance International Press www.flipnews.org