martedì 8 aprile 2008

La fine della fabbrica del formaggio verde?

La richiesta formale avanzata dal presidente iraniano all’OPEC di realizzare un’entità bancaria comune, anche al fine di non utilizzare più il dollaro come valuta nella quale esprimere gli standard del petrolio suona, al di là della realizzabilità concreta, anche visto il vasto schieramento di alleati degli Usa tra i paesi produttori, né più né meno come quella alquanto improbabile atomica che il regime iraniano è accusato, in particolare dall’amministrazione statunitense, di volere realizzare.

In un mercato valutario che, ormai anche secondo stime ufficiali, è largamente dominato dalla frenetica attività a supporto del dollaro da parte delle banche centrali e che vede una sempre minore presenza della domanda privata di valuta, questa notizia è destinata a fare molto discutere, pur non trattandosi assolutamente di un fulmine a ciel sereno, in quanto è da due anni che, tra una minaccia all’altra alla sopravvivenza dello Stato di Israele, il discusso presidente iraniano ha già fatto più volte balenare l’idea di istituire, nel suo Paese, una borsa petrolifera con standard espressi in valute diverse dal dollaro, con riferimento, con ogni probabilità, proprio all’euro.

Non vi è, altresì, alcun dubbio che la messa in discussione del dollaro come valuta in cui vengono espressi, in via pressoché esclusiva, i valori delle materie prime, di gran parte delle merci scambiate sui mercati internazionali ed in cui vengono ancora espresse poco meno di due terzi delle valute convertibili detenute dalle banche centrali, rappresenta un fenomeno di grandi proporzioni e che rischia di mandare all’aria quella “fabbrica del formaggio verde” che tanto peso ha avuto negli investimenti diretti statunitensi all’estero, basti pensare all’Europa ed al Giappone del secondo dopoguerra o ai paesi emergenti dell’Asia.

Nonostante l’ostinata e pervicace resistenza del governo laburista britannico all’espansione dell’euro (e gli stessi trasparenti tentativi di boicottare l’impervio processo che dovrebbe portare dall’unificazione monetaria alla tanto agognata realizzazione degli Stati Uniti d’Europa, agognata almeno da quanti si richiamano ai valori dei padri fondatori delle prime strutture comunitarie), l’utilizzo esclusivo dell’euro nell’immenso volume di scambi che avviene, appunto, nella vasta area dell’Europa che adotta la nuova moneta sta facendo da volano ad un peso crescente dell’euro sul totale delle riserve espresse in valute convertibili, nei contratti derivati e, in un domani non lontano, atlantici permettendo, anche per quanto riguarda i contratti relativi alle materie prime.

Se non si ha chiara la dimensione dell’immensa posta che è attualmente in gioco tra i fautori di una maggiore unità politica, economica e militare nel sempre più vasto panorama europeo, quale prius per la realizzazione di un mondo sempre meno unipolare, o, peggio ancora, basato sul preistorico equilibrio del terrore non del tutto svanito con la fine della guerra fredda, sarà molto difficile comprendere gli eventi geopolitici di questi primi anni del nuovo millennio, così come fenomeni quali gli eventi bellici in corso, eventi in non piccola misura volti a determinare, manu militari, una sopravvivenza del dollaro come valuta centrale dell’economia mondiale, peraltro a valori del tutto irrealistici rispetto a quelli che scaturirebbero da qualsivoglia analisi di tipo fondamentale.

Il problema, tuttavia, è rappresentato dal fatto che il costo immensamente superiore alle ottimistiche previsioni dei Rumsfield di turno sta determinando un ulteriore aggravamento dei già estremamente significativi squilibri strutturali che affliggono gli Stati Uniti da oltre un trentennio, squilibri agevolati dalla riallocazione in attività finanziarie e in investimenti immobiliari e produttivi da parte dei paesi detentori degli speculari surplus che, almeno sino a pochi anni fa, non avevano reali alternative rispetto agli assett delle tre specie, ma in ogni caso rigorosamente espressi in dollari.

Il vivace dibattito in corso nella apposita commissione del Senato statunitense sulla persistenza, nel mercato finanziario, del solo apparentemente desueto principio del too big to fail, ha, in realtà, negli Stati Uniti d’America un esempio clamorosamente esemplificatorio, in quanto un’eventuale decisione dei fondi governativi arabi e cinesi di diversificare significativamente, dal punto di vista valutario, le loro immense attività in dollari finirebbe per trasformarsi in una mossa suicida, in quanto spingerebbe la valuta statunitense a sprofondare in abissi difficilmente immaginabili, anche alla luce dell’alquanto inconsistente domanda di dollari riconducibile al settore privato.

Stretti tra questa contraddizione e la necessità di sostenere in ogni modo, e con ogni mezzo, i principali soggetti operanti nel mercato finanziario globale, i banchieri centrali si trovano alle prese con qualcosa rispetto alla quale un koan zen è poco più di un indovinello da porre agli alunni delle elementari, anche perché è ogni giorno che passa sempre più evidente agli operatori ed agli analisti (gli economisti al momento sono in una fase di afasia susseguente al diluvio di parole con le quali ci hanno alluvionati nei primi mesi di questa tempesta perfetta) che le pistole di Bernspan e dei suoi colleghi di tutto il mondo sono ormai quasi completamente scariche.

E’ dal 9 agosto del 2007 che mi capita di osservare come, ad ogni minimo cenno di ripresa dallo stato piatto in cui versa il mercato azionario, ma, ancor di più, l’economia statunitense, immediatamente parte una salva di dichiarazioni che salutano la fine del tunnel oppure ipotizzano che il peggio sia ormai alle spalle, salvo verificare che si sta accumulando in vista del prossimo gradino, normalmente posto considerevolmente più in alto di quello su cui si poggiava in precedenza.

Così è accaduto dopo il totale blocco di liquidità interbancaria e gli apparentemente salvifici primi interventi di bernspan e l’alluvione di liquidità che inondò allora i mercati, ma poi venne lo shock di Rorthern Rock che fecero sprofondare la gran Bretagna, ed il mondo intero, in un incubo, quello dell’assalto agli sportelli di una banca, che si credeva dimenticato da poco meno di ottanta anni.

L’altro gradino è stato quello rappresentato dalle molteplici invenzioni di Henry Paulso, ampiamente coadiuvato dal panic cutting della Fed, ma subito dopo è venuto l’incubo delle compagni di assicurazione monoline, affondate inesorabilmente da un vero diluvio di vendite, per non parlare del fallimento, così lo ha definito Bernspan, dell’orso di Stearns ed il salvataggio della stessa, via Fed, ad opera di J.P. Morgan-Chase poco dopo il piano di restituzione fiscale annunciato in pompa magna dal duo Bush-Paulson.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL del 19 c.m. è disponibile nella sezione video (alla voce videoinformazione) del sito Free Lance International Press www.flipnews.org