domenica 13 aprile 2008

La mission impossible di Mario Draghi

Pur dichiarando in anticipo di non conoscere i criteri ed i tempi di rotazione previsti per l’incarico di presidente del Financial Stability Forum, credo proprio che non sia un caso che il prestigioso incarico sia ormai da lungo tempo appannaggio del giovane ed esperto Mario Draghi, al suo secondo rapporto agli altri big finanziari del G7, così come credo che gli verrà chiesto di mantenere il prestigioso incarico almeno sino alla fine della tempesta perfetta.

Basta scorrere, infatti, l’asciutto ma denso curriculum vitae disponibile sul sito della Banca d’Italia, per comprendere come pochi tra i suoi colleghi possano vantare, alla non veneranda età di 61 anni, la varietà di esperienze vissute sempre intensamente dal nostro Governatore, dalla direzione generale del Tesoro dalla quale pilotò il più rilevante e rapido processo di privatizzazione che mai abbia caratterizzato un Paese, all’importante, seppur breve, incarico ricoperto nella prestigiosa Goldman Sachs, una delle Investment Banks che lo avevano conosciuto come implacabile negoziatore nel citato processo di privatizzazione, alla esperienza accademica che lo caratterizza sin da giovanissimo, una persona, insomma, che si è sempre distinta lavorando da tutti i lati della barricata nel mondo della finanza e degli affari, ma, prevalentemente uno dei pochi civil servant italiani degni di questo nome.

E’ anche per questo che suggerisco di ascoltare con attenzione le sue dichiarazioni provenienti dal Golden Week End che si sta concludendo in quel di Washington, un appuntamento che non verrà trascurato da chi si assumerà l’onere di scrivere la storia della tempesta perfetta, perché, oltre al tanto atteso rapporto di 90 pagine corredato da ben 65 raccomondazioni, lo stesso che ha mandato, venerdì sera, la cena di traverso a Joseph Ackermann, il potente e temuto amministratore delegato della Deutsche Bank, ed a tanti altri banchieri globali e di investimento, si sono svolte le assemblee dei due datati ed acciaccati pilastri dell’ordine economico internazionale scaturiti, a guerra ancora in corso, dalla Conferenza di Bretton Woods, che, lo ricordo, vide la nascita di quella sciagurata centralità del dollaro cui si oppose, in totale solitudine, John Maynard Keynes.

Dopo aver riscosso l’approvazione ed il plauso dei suoi colleghi del G7 e di buona parte dei loro omologhi dei 185 paesi membri del Fondo Monetario Internazionale, assistito impassibile alle rimostranze, a porte rigorosamente chiuse, degli ex colleghi a capo delle Investment Banks e delle banche globali nel corso di una cena a dir poco imbarazzante, il nostro ha fatto l’eco alle dure dichiarazioni del ministro del tesoro USA e suo ex capo in Goldman, chiarendo a chiunque glielo chiedesse che la crisi non è finita, che nessuno si aspettava che gli eccessi del passato avessero determinato una situazione come quella che il rapporto ben rappresenta, ma che l’unica nota positiva sta nell’approvazione convinta ed all’unanimità ricevute dalle sue non lievi e numerose raccomandazioni volte, come ha sostenuto, a curare ed a prevenire per il futuro il ripetersi della malattia.

Ma le cronache della tempesta perfetta ci dicono che la giornata di venerdì scorso è staa anche caratterizzata da una chiusura di ottava realmente disastrosa sui mercati azionari statunitensi, in quanto, forse per la prima volta a giudicare dalle reazioni, il colosso General Electric, un conglomerato operante in sei settori che spaziano dalla elettricità alla finanza, dalla realizzazione di infrastrutture all’assistenza sanitaria (ovviamente privata), ha annunciato risultati, in termini di ricavi e di profitti, sensibilmente inferiori alle attese degli analisti e alle sue stesse stime rese note in precedenza al mercato, il tutto senza uno straccio di profit warning in queste settimane ed in questi mesi, mentre ne ha emesso uno molto pessimistico proprio venerdì, con riferimento all’intero esercizio 2008.

E’ questa incapacità di segnalare per tempo che qualcosa non stava andando per il verso giusto in quella che è rimasta forse l’unica realtà “reale” nel mondo della finanza arrembante (almeno se non ci si vuole arrendere a lasciare lo scettro alla controversa regina del discount Wal Mart) che ha determinato un’istantanea raffica di downgrade del titolo, accompagnato da una flessione di oltre il 12 per cento, una dimensione che è diventata abituale e non giudicata grave nel malconcio settore finanziario, ma che è di una gravità forse senza precedenti per una realtà aziendale che ha fatto della sua solidità e della sua credibilità un vero e proprio “must”.

In un mercato che definire ondivago ed incerto rappresenta un vero e proprio eufemismo, le notizie diffuse prima dell’apertura delle contrattazioni hanno vanificato l’effetto positivo delle indiscrezioni diffuse ad arte dagli sherpa dei protagonisti del G7 ed è iniziato il solito bagno di sangue, non quello segnalato dalle perdite intorno ad un più che accettabile 2 per cento circa dei tre listini azionari statunitensi principali, ma i tracolli che hanno caratterizzato nell’intera settimana scorsa dei principali fondi di investimento (quelli che, insieme ai fondi pensione, sono viste dall’FMI come le destinatarie della maggior parte dei 945 miliardi di perdite che dovrebbero, almeno così si spera, il conto finale di questa tempesta perfetta).

Ovviamente, la vera risposta del mercato al titanico sforzo di Draghi e compagni verrà solo lunedì alla riapertura dei mercati azionari, di quelli obbligazionari, dello strategico mercato della liquidità interbancaria, sino ai luoghi dove, in termini fisici o via derivati, ci si scambia non tutto ma veramente di tutto, con l’avvertenza che sarà necessario seguire l’andamento delle cose nei giorni e nelle settimane successive, anche perché se c’è una cosa della quale devo dare atto ai banchieri centrali ed ai ministri economici dei sette paesi maggiormente industrializzati è proprio l’assenza di quei toni entusiastici e/o trionfalistici cui loro stessi o i loro predecessori ci avevano, purtroppo, abituato in un passato tutt’altro che remoto.

Lo stato delle cose sulle quali devono incidere profondamente le dure prescrizioni previste dal rapporto, peraltro, è stato ben rappresentato da molti analisti, esperti e giornalisti economici non embedded, un quadro che, forse per la prima volta da agosto, è chiaro in tutta la sua gravità e pervasività, ma non per questo dovrebbe essere tetragono a misure che sono qualcosa di ben diverso dal panic cutting di Bernspan, o dalle inondazioni di liquidità che non hanno ancora portato al ristabilimento della fiducia reciproca tra le banche globali e non.

Annoverando pochi ma molto severi lettori, ritengo opportuno chiarire che non modifico alcuna delle critiche presenti nella puntata di ieri (che appariranno domani come speciale sul sito della UILCA e su Flipnews), ma ritengo che vada riconosciuta a quanti si sono misurati con l’arduo compito di analizzare le vere cause della crisi finanziaria in corso e ad individuare una qualche forma di terapia, nonché di gettare le basi di una maggiore trasparenza e parità informativa per un mercato finanziario globale che della opacità e della disparità informativa ha fatto la sua caratteristica distintiva, l’impegno profuso e l’onestà intellettuale dimostrata.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL del 19 c.m. è disponibile nella sezione video (alla voce videoinformazione) del sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/