sabato 19 aprile 2008

Citigroup brucia 49 miliardi in soli sei mesi!


Come è abitudine di questo appuntamento quotidiano, vorrei cercare di offrire una lettura leggermente diversa dello stato di salute di quella che è, in assoluto, la prima banca commerciale degli Stati Uniti d’America, quella Citigroup che, sotto la guida di David Weill prima e del suo pupillo Chuck Prince III poi, ha portato a compimento una vera e propria mutazione genetica, giungendo a sviluppare una divisione di Corporate & Investment Banking di dimensioni assolutamente comparabili a quelle medie delle Big Five tragicamente divenute di recente Big Four e ad essere presente in un numero di nazioni comparabile con quella specie di ONU del credito rappresentata dalla extracomunitaria UBS.

Cosa sia accaduto realmente in questo lasso di tempo complessivamente pluridecennale non credo sarà mai dato di saperlo con esattezza, anche perché alla luce del veloce turn over di affari e di addetti ai lavori imperante nel rutilante mondo della finanza, molte avventure finanziarie sono, per fortuna, finite in bonis, così come molte donne ed uomini di prima e seconda linea della CIB Citi sono riusciti ad andare tranquillamente in pensione o stanno vivendo altre avventure su altre navi corsare.

E’ possibile, tuttavia, dedurre quanto elevato fosse l’Everest della finanza strutturata creata dall’anziano banchiere e dal rampante avvocato d’affari, vedendo gli effetti sugli ultimi due trimestri resi noti, con il loro carico di perdite in contanti e in posti di lavoro andati, o che prossimamente andranno, in fumo, nonché di una massa gigantesca di aspirazioni individuali destinata a frantumarsi per le difficoltà ad operare tra le nuove regole, le nuove entità di vigilanza, ma, soprattutto, i paletti sempre più alti che le disastrate banche statunitensi stanno erigendo, paletti che, favoriti anche del montante credit crunch, dovrebbero portare ad una selezione feroce di quella altrettanto gigantesca domanda di credito proveniente da quei consumatori americani che, in larga misura, ancora credono che il vincolo di bilancio non riguardi loro, come, in realtà, sembra proprio e da lunga pezza non riguardare la loro grande Nazione, né all’interno, né, tanto meno, per quanto riguarda i conti con l’estero.

Ebbene, i numeri sul primo trimestre di questo pesantissimo 2008, numeri non a caso forniti dall’uomo che deve anche assumersene la responsabilità alla luce delle stringenti previsioni di quella Sorbanes-Huxley che ha provocato il rapido delisting di gran parte delle entità europee che avevano il vezzo di essere quotate anche a New York, il Chief Operating Officer Gary Critteden, peraltro marcato a vista dal nuovo e giovane CEO di Citigroup, Vikram Pandit, un Critteden di cui si può dire di tutto meno che non abbia parlato alquanto chiaramente dei numeri e delle stesse prospettive per la sua e le altre banche alle prese con l’attuale tempesta perfetta.

Applicando lo stesso criterio impietosamente applicato dai feroci analisti nei giorni scorsi alla disastrata Merrill Lynch, si può così dire che, in soli due trimestri, Citigroup ha saldato la prima rata del suo conto, sottraendo alla disponibilità degli azionisti qualcosa come 49 miliardi di dollari, 15,1 miliardi in termini di perdita (10 miliardi nel quarto e 5,1 nel terzo), 32 miliardi come svalutazioni operate a vario titolo e, nel solo primo trimestre, un’iniezione di 2 miliardi a rimpinguare quelle riserve che difficilmente daranno luogo a sopravvenienze attive per essere state sovradimensionate rispetto alle effettive necessità.

So bene che la tesi che tende a prevalere tra gli analisti ed i giornalisti maggiormente embedded alle necessità dell’industria finanziaria globale è quella che questo vero e proprio disastro, peraltro in linea con quello delle consorelle statunitensi e delle banche globali, rappresenti il segnale della fine della tempesta perfetta, ma ritengo che forse sarebbe il caso si dessero la pena di ascoltare fino in fondo le parole del CFO di Citigroup, che solo ieri affermava che, in base all’esperienza storica degli ultimi decenni, la situazione rimarrà pessima per almeno 8-10 trimestri e comunque per non meno di due anni.

Se lo dice lui che, oltre a conoscere alla perfezione quei flussi disastrosi espressi dalle due trimestrali, è perfettamente consapevole di quell’altezza della montagna degli stock di titoli della finanza strutturata on e off balance sheet (che, sia detto per inciso, ci dicono oggi quello che avverrà, alquanto ineluttabilmente, domani), credo proprio che sia il caso per tutti noi di ascoltarlo con il rispetto che merita ogni persona che soffre, ed è certo che le donne e gli uomini di Citi come delle altre entità del mercato finanziario globale stanno certamente soffrendo, né sanno quanti tra loro resteranno al loro più o meno adeguatamente remunerato posto nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

Già, perché buona parte del recente rally delle azioni delle Investment Banks e delle banche globali è in larga misura legato ai feroci tagli di organico e di costi generali che viene ormai annunciato in contemporanea con i risultati di bilancio, cosa che è puntualmente accaduta ieri, quando Pandit, per mettere un po' una pezza ai disastrosi numeri, ha annunciato che il taglio dei circa 4 mila dipendenti annunciato in gennaio era stato testé portato al ben più consistente numero di 13 mila, un numero comunque da rivedere, ovviamente al rialzo, nei prossimi mesi.

Vi risparmio le attente analisi sull’inefficacia di medio lungo periodo derivanti da questi, spesso feroci ed indiscriminati, processi di downsizing, analisi riportate, peraltro, non più tardi di ieri in un accurato articolo di Jennifer Ablan (ah, se governassero le donne!) e William Kemble-Diaz dell’agenzia Reuters, anche perché so bene che per quegli elefanti imbizzarriti che sono oggi i numeri uno delle banche, spesso inconsapevoli di trovarsi in un negozio di cristalli, l’unica cosa che conta è mandare agli analisti ed alle agenzie di rating messaggi rassicuranti sulla loro capacità di gestire i conti nel breve se non nel brevissimo periodo, anche se spesso non sono così convincenti da non indurre la solita Fitch a degradare in corsa il rating di Citi, mentre le più prudenti sue consorelle hanno soltanto emesso il solito warning cui, ormai da molti mesi, raramente traggono le dovute conseguenze.

Siccome sono ormai contagiato dalla mania americana per le statistiche, vorrei sommessamente ricordare che, soltanto nell’orribile 2007, hanno perso il lavoro oltre 100 mila donne ed uomini operanti direttamente nell’industria finanziaria statunitense, mentre si è del tutto perso il conto dei posti di lavoro persi nel cosiddetto indotto (anche se, fino a che sono stati resi noti, si sapeva che il numero dei licenziamenti dell’indotto era largamente superiore a quello dei dipendenti diretti di banche e finanziarie), mentre, nel breve tempo trascorso dall’inizio dell’anno, altri 36 mila dipendenti hanno ricevuto la tradizionale letterina rosa che annuncia la perdita immediata del posto di lavoro, cui si aggiungeranno tra breve i 12.400 che hanno appreso di essere fortemente a rischio nelle tre conference call tenutesi in questa settimana da parte di Citigroup, Wachovia Bank e Merrill Lynch,

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/