Dopo la sofferta ed inevitabile approvazione da parte degli azionisti di Bear Stearns della mini offerta di acquisto dell’intero capitale sociale della storica banca d’investimento newyorkese per la misera somma di un miliardo di dollari (poco al di sopra di una parte del patrimonio immobiliare di Bear), oggi è la volta degli azionisti di J.P. Morgan-Chase di dare il definitvo via libera al deal che, come è noto, è stato favorito dal maxi finanziamento di 30 miliardi di dollari ottenuto a rischio zero dalla Federal Reserve a copertura delle eventuali perdite della banca acquisita, un finanziamento che, se non andrà a buon fine, ricadrà sulle spalle degli alquanto esausti contribuenti americani e che vanificherà una bella fetta dell’effetto del fiscal restore appena concesso dall’apposito provvedimento parlamentare nella versione benedetta dal presidente Bush.
Come ricordavo ieri, se tutto andrà per il verso previsto, dal prossimo lunedì l’orso di Stearns cesserà di esistere e verrà definitivamente messa la parola fine agli 85 anni di storia della mitica Investment Banks statunitense, col poco piacevole corollario che il numero delle grandi banche di investimento con sede negli USA passerà da cinque a quattro e, da allora in poi, parleremo di Big Four e non più di Big Five.
Sarà un caso, ma oggi le quotazioni delle azioni delle superstiti quattro banche di investimento risultano alquanto depresse, anche perché oggi è per loro l’ultimo giorno lavorativo del secondo trimestre (che, ovviamente, chiude un mese prima di quello delle banche che seguono i trimestri legati all’anno legale), ma anche per le ovvie riflessioni che gli attuali azionisti sono chiamati a fare in relazione alla sorprendente fine a sorpresa di una banca che non si differenzia molto per tipologia di attività e per livello elevatissimo di debt/capital ratio da quelli che caratterizzano le quattro banche per il momento superstiti, riflessioni certamente influenzate dalle affermazioni rese dal presidente della Securities and Exchange Commision, l’ormai mitico Effe O Ixs, davanti ai senatori della Commissione Bancaria pochi giorni dopo il fallimento tecnico di una banca che aveva a disposizione un nutrito tesoretto di titoli di prima qualità e che, nonostante questo, non era riuscita a raggranellare finanziamenti per una frazione della sua disponibilità di facile liquidazione.
Affondate le prime scialuppe del transatlantico spezzato in due dagli alti marosi della tempesta perfetta, resta nella maggior parte degli analisti e degli osservatori dotati del giusto senso critico e della necessaria dose di indipendenza dai forti interessi costituiti delle maggiori entità operanti nel mercato finanziario globale un profondo senso di sconcerto e di amarezza per la totale impunità del moral hazard implicito nella gestione delle Investment Banks e delle divisioni Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, un’operatività ed un livello di esposizione al rischio dei quali, in non pochi casi non solo gli azionisti ma anche i vertici aziendali erano in buona misura del tutto all’oscuro.
Non voglio ripetermi, ma credo necessario ricordare questo dato è ormai nella consapevolezza dei governatori delle banche centrali e dei ministri economici del G7, ha spinto Mario Draghi ed i suoi autorevoli colleghi del Financial Stability Forum a formulare ben 65 raccomandazioni per riformare radicalmente le regole cui si devono, o meglio si dovrebbero, adeguare i vertici delle banche e delle compagnie di assicurazione, nonché quelli di tutte le entità coinvolte nel grande business della finanza, regole che dovrebbero essere benedette dal prossimo vertice dei sette grandi del pianeta che si terrà a metà luglio in Giappone, ma che rischiano di nascere già morte se non verranno accompagnate da un’autoriforma della governance aziendale che tagli le ali alla eccessiva autonomia non tanto dei capi delle CIB o delle Investment Banks, ma, e soprattutto, dei capi intermedi e degli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto che, spesso, sono gli unici a conoscere la reale pericolosità dei prodotti sofisticati da loro inventati.
Venendo alle cose che riguardano Main Street più che Wall Street, dicotomia che è ormai diventata una sorta di mantra nei discorsi dei tre principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America e delle migliaia di candidati per un seggio alla Camera dei Rappresentanti o al Senato di quella che ancora resta la più importante nazione del mondo, non può non colpire il dato sulla fiducia dei consumatori elaborato dall’Università del Michigan (in assoluto l’indicatore più seguito, insieme a quello della Fed di Philadelphia, dall’ex presidente della Fed, Alan Greenspan), giunto ad un livello di un soffio superiore al minimo toccato nel lontanissimo 1980, ossia la bellezza di 28 anni orsono.
Anche alla luce dell’attenzione prestata ai risultati di questi sondaggi, oltre che ovviamente ai dati reali, dai vecchi e nuovi decision makers della Fed, desta molta preoccupazione il vero e proprio balzo in avanti della inflazione attesa dagli intervistati, una circostanza che non potrà non pesare, dopo l’orgia dei tagli appena conclusasi, sulle prossime riunioni del Federal Open Market Committee, in una delle quali, da ora alla fine dell’anno, potrebbe essere deciso un primo rialzo dei tassi di interesse che, lo ricordo ai lettori più distratti, è ormai nettamente su valori negativi in termini reali.
D’altra parte, non appena verrà confermato il dato sull’altrettanto rilevante, e purtroppo effettivo, balzo in avanti dell’indice dei prezzi al consumo medio dei paesi appartenenti all’area dell’euro, lo scenario rialzista tanto caro alla maggioranza neotemplare e teutonica del Board della Banca Centrale Europea che non riterranno in alcun modo di sicurezza l’esile margine dello 0,4 per cento tra il CPI e i tassi di riferimento da lungo tempo bloccati sul livello del 4 per cento.
La brusca scivolata del prezzo del petrolio registrata nelle ultime due sedute sta innescando un clima di vero e proprio panico tra gli investitori che si sono messi con grande ritardo nella scia di Goldman Sachs e delle altre grandi entità che stanno operando massicciamente one way da molti mesi, così non vi è da stupirsi del mini rimbalzo di oggi, né del fuoco di fila dei media embedded che cercano di gettare acqua sul fuoco di queste paure, definendole, non si sa proprio in base a che, del tutto infondate, al punto da quasi brindare sul raggiungimento di fatto della soglia psicologica di quattro dollari al gallone alla pompa, soglia che credo sia stata già superata in quella California che continua ad essere lo stato più popoloso degli Stati Uniti.
Segnalando che in tanto marasma di dati effettivi e di attese negative più o meno razionali, la società del lusso Tiffany, nota per il rinomato negozio sulla Fifth Avenue a pochi passi dal celeberrimo Plaza Hotel, negozio immortalato nel celebre film con Audrey Hepburn, ha registrato nel primo trimestre del 2008 un vero e proprio balzo in avanti degli utili (un +19 per cento condito da buone previsioni per l’intero anno), non voglio proprorre una nota di colore, bensì far riflettere sul livello ormai insostenibile raggiunto dalla distribuzione del reddito all over the world, peraltro testimoniata dalla presenza nei soli Stati Uniti d’America di un vero e proprio esercito di milionari e multimilionari, cifrato da recenti ed attendibili stime in ben 10 milioni di individui.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/
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