La nuova impennata del prezzo del petrolio registrata dopo la dichiarazione del presidente dell’OPEC secondo la quale il cartello petrolifero non avrebbe alcuna intenzione di aumentare la produzione prima della riunione prevista per il lontanissimo mese di settembre ha messo a portata di mano l’ennesima soglia psicologica posta a 130 dollari, un livello che consentirebbe al prezzo alla pompa negli Stati Uniti d’America d’infrangere l’altrettanto psicologica soglia dei 4 dollari al gallone, mentre il gasolio la ha già superata da un bel pezzo, con le evidenti conseguenze derivanti dal fatto che molto difficilmente i prezzi del trasporto su gomma delle merci potranno restare immuni da uno degli elementi fondamentali per la determinazione degli stessi.
Il vero e proprio pateracchio statistico riguardante un alquanto maldestra destagionalizzazione dell’indice dei prezzi all’ingrosso in aprile ha, inoltre messo in risalto che il livello dei prezzi cosiddetti ex food and energy si muove ad un livello esattamente doppio dell’indice complessivo, il che risulta davvero risibile alla luce delle variazioni registrate negli USA e nel mondo intero per le due voci escluse, ma segnala anche ed altrettanto inequivocabilmente che ormai siamo di fronte ad una pervasività della dinamica delle due voci cruciali per il modello americano verso i prezzi dei beni intermedi e finali, uno scenario che rende ancora più attuale la temutissima ipotesi che ci troviamo già immersi nella stagflazione, quella temutissima miscela di inflazione e stagnazione che rende la recessione prossima ventura di lunga se non lunghissima durata.
Pur avendo deciso da tempo di non prestare molta attenzione ai listini azionari operanti sull’intero arco delle 24 ore, mi vedo costretto a fare un eccezione oggi, in quanto sembra proprio che la percezione che ho appena descritto sia condivisa da Tokyo a New York, passando ovviamente per l’Europa, al punto da innescare un’aspettativa di possibile rialzo dei tassi di interesse, un rialzo volto a contrastare con la “corda del boia” il rischio che i tassi di crescita dei prezzi al consumo possano uscire da quel sentieri virtuoso così ben descritto da un’economista in tempi non sospetti in un saggio dall’eloquente titoli The End of the Inflactionary Era.
Non so proprio cosa farà il pistolero Bernspan ed i suoi allegri compari presenti con voto decisionale nel Federal Open Market Committee, ma so benissimo che Jean Claude Trichet e la stessa pavida Bank of England non ci metterebbero un secondo a decidere di stringere ed anche decisamente il cappio attorno al collo della già non brillante economia europea sia al di qua che al di là della Manica, in quanto il terribile scenario degli anni Settanta che mise in ginocchio l’economia britannica e gettò le basi per la successiva rivoluzione di Mrs. Thatcher, ma che notevoli disastri produsse anche in Italia ed in molti altri paesi europei non potrebbe essere tollerata da una Banca Centrale Europea che sintetizza la meglio l’eredità della Bundesbank e del suo clone olandese, con un Board che farà di tutto per dimostrarsi degno epigone di quel granitico consiglio della banca centrale tedesca che è sempre stata disposta a sopportare qualche milione di disoccupati in più piuttosto che veder rivivere l’incubo di Weimar.
E’, quindi, bastata una sola seduta sulle tre piazze principali dell’economia globale per fare giustizia sommaria delle giaculatorie dei governanti e degli opinionisti che si affrettavano a mettere il cartello The End sul film della tempesta perfetta che sta dimostrando con grande nettezza che i suoi marosi possono, quasi dieci mesi dopo il suo avvio, essere ancora più temibili di quanto lo siano stati sino ad ora, con l’aggravante che i miei pochi ma fedeli lettori ben conoscono e che è data dal fatto che, almeno negli Stati Uniti, è già stato fatto tutto quello che era possibile sul fronte dei tassi, su quello dell’accoglimento dell’accoglibile nelle capaci discariche a cielo aperto aperte dalla Fed per ospitare i titoli della finanza strutturata, così come è difficile immaginare di poter fare qualcosa di più di quello che si è fatto sugli altrettanto caldi fronti della liquidità interbancaria e del sostegno del cambio del sempre più evanescente dollaro.
Non stupisce, così, che le quotazioni delle monoliner siano in caduta libera, così come quelle di pressoché tutti gli attori del mercato finanziario globale, in quanto mancano solo quattro o cinque settimane alla scadenza dell’ultimatum lanciato all’unisono da Mario Draghi ed Henry Paulson ai maggiori tra i loro ex colleghi che, a differenza di loro due, hanno ancora la sfortuna di essere alla guida delle principali banche di investimento e delle maggiori banche più o meno globali, mentre è altrettanto certo che la posizione dei loro omologhi posti ai vertici delle compagnie di assicurazione, dei fondi pensione o di quelli di investimento non se la passano certo meglio in questa ben poco piacevole congiuntura.
Se la situazione non fosse davvero tragica, verrebbe da sorridere pensando alle tonnellate di articoli e di dichiarazioni che ci siamo dovuti sorbire nelle ultime settimane da parte di quanti, al di là della loro indubbia posizione di embedded, hanno, in molti casi in perfetta buona fede, preferito credere a quello che riusciva a rassicurarli, piuttosto che avere il coraggio di raccontare quello che, ogni giorno che passa, diventa sempre più chiaro anche a chi non si è mai occupato di questione economiche e finanziarie, e cioè che non sarà possibile uscire da questa situazione con mosse astute o con il piccolo cabotaggio, anche perché la dimensioni del problema che è alla base della tempesta perfetta è di dimensioni che vanno dalle trenta alle quaranta volte quello che governi, banche centrali e privati volenterosi possono realisticamente mettere in campo.
Quando, nei primi giorni di settembre dell’anno scorso, avevo tentato di mettere in fila le principali tessere del mosaico della crisi finanziaria, ero giunto ad un totale compreso tra 25 e 30 mila miliardi di dollari, ma le tessere che si sono aggiunte nei mesi successivi mi fanno ritenere che la parte alta della forchetta di stima possa essere tranquillamente moltiplicata per due, con l’aggravante che l’ultima mega svendita di titoli relativamente buoni effettuata dalla extracomunitaria UBS ha evidenziato uno sconto del 32 per cento, il che fornisce un’idea di quale possa essere il valore dei titoli della finanza strutturata che potremmo definire di pessima qualità.
Non voglio sottovalutare il peso relativo di un colosso del credito a livello globale quale certamente è Citigroup, ma credo che l’outing da 2.200 miliardi di dollari coraggiosamente pronunciato dal suo nuovo CEO, Vikram Pandit, possa fornire un’idea approssimativa della montagna di titoli della finanza più o meno strutturata che resta ancora da smaltire, una montagna che, con buona pace del professore emerito della sapienza di Roma, Luigi Spaventa, nessun fondo di salvataggio può essere realisticamente in grado di aggredire, a meno che non si ricorra ad una sorta di moratoria dalle conseguenze veramente imprevedibili e che nessun governo che si basi sul consenso espresso attraverso il voto popolare potrebbe essere in grado di proporre senza presentare al contempo le proprie dimissioni.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/