Non si era ancora spento l’eco dell’ennesima perdita mostre di UBS, nonché il forte impatto psicologico dei maxi tagli di personale annunciati nelle sale di New York e Londra del colosso creditizio extracomunitario, che è deflagrata oggi, a mercati azionari statunitensi opportunamente già chiusi, la notizia della rilevantissima perdita nel primo trimestre messa a segno da AIG, numero uno delle compagnie di assicurazione statunitensi, colpita per il secondo trimestre consecutivo da rilevantissime svalutazioni su derivati e sulla montagna di titoli della finanza strutturata tuttora in suo possesso per oltre 579 miliardi di dollari.
Il primo trimestre di AIG si chiude, infatti,in rosso per 7,81 miliardi di dollari contro i 4,13 miliardi di utile registrati nello stesso periodo del 2007, dopo una perdita si credit default swaps per 9,1 miliardi di dollari che fanno seguito agli 11 miliardi persi allo stesso titolo nell’ultimo trimestre dell’anno scorso, mentre le svalutazioni sono state pari a 6 miliardi, contro i 3 miliardi appostati nel trimestre precedente, costringendo AIG a chieder immediatamente al mercato 12,5 miliardi di dollari di denaro fresco, 7,5 miliardi a titolo di aumento di capitale (ad un prezzo, ovviamente molto scontato rispetto ai corsi attuali, ma non specificato al momento), mentre altri 5 miliardi verranno dalla successiva vendita, sarebbe meglio dire svendita, di titoli per 5 miliardi di dollari.
Nel tentativo di tenersi buoni gli infuriati azionisti che già mettono nel conto l’effetto diluitivo dell’annunciato aumento di capitale, il board of directors di AIG ha deciso di aumentare di due centesimi di dollaro il dividendo, portandolo così a 22 centesimi, ma resta il fatto che il flusso di ricavi, da due trimestri bloccato intorno ai 12 miliardi di dollari, appare totalmente inadeguato a fronteggiare le continue svalutazioni effettuate e quelle prevedibili per quelli che verranno, alla luce della montagna di impegni che questa compagnia, in analogia preoccupante con le due maggiori compagnie monoliner, ha ancora in portafoglio.
Eppure, non più tardi di ieri, il ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, in due molto accomodanti interviste, aveva affermato che siamo molto più vicini alla fine che all’inizio della tempesta perfetta (ovviamente, lui per motivi istituzionali e scaramantici si guarda bene dal definirla così), compiendo così un ulteriore passo su quel cammino di perdita reputazionale della quale, in linea con il comportamento proprio dei banchieri di investimento di lungo corso, il nostro non si preoccupa minimamente, ponendosi sulla scia di Bernspan e complici, dell’ineffabile King della Bank of England, mentre ancora nulla si può dire dell’appena nominato Governatore della Bank of Japan.
Nel frattempo, con buona pace di Paulson e dei suoi colleghi, il petrolio ha sfondato l’ennesima soglia, stavolta posta a 124 dollari, mentre lo spread che caratterizza i tassi interbancari rispetto a quelli di riferimento continua a mantenersi a livelli assolutamente abnormi, quasi insensibili alla inondazione di liquidità (475 miliardi di dollari da dicembre soltanto negli Stati Uniti) operata dalle banche centrali ormai da nove mesi, mentre i successi sul mercato dei cambi, peraltro molto drogati dall’operatività delle stesse banche centrali, dovrebbero tradursi, in un futuro molto prossimo, nell’ennesimo rimbalzo dell’euro e dello yen nei confronti del dollaro.
Mentre permane il silenzio assordante proveniente dalle banche dell’area dell’euro, al solito favorite dal notevole lag temporale che caratterizza i loro annunci trimestrali rispetto alle scadenze delle banche statunitensi, si avvicina sinistramente la scadenza di fine giugno, solennemente annunciata da Draghi e Paulson nell’ormai celeberrima ultima cena svoltasi in avvio dei lavori dei ministri economici e dei governatori dei paesi del G7 a metà aprile a Washington, una deadline che costringerà i CFO dele banche basate al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico a fare nottate su nottate per fornire una stima attendibile della montagna di titoli della finanza strutturata che il mercato si rifiuta ostinatamente di assorbire, nonostante gli incessanti sforzi degli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle CIB che cercano in tutti i modi di presentare nuove confezioni luccicanti che contengono però titoli aventi più o meno le medesime caratteristiche di quelli che il mercato giudica assolutamente indigesti.
Volgendo lo sguardo all’Italia, l’ennesimo dato disastroso sulla raccolta negativa dei fondi di investimento, che consente di giungere ad un deflusso di 45 miliardi nei primi quattro mesi del 2008, le ultime stime sulle mostruose perdite potenziali su derivati facenti capo agli enti locali italiani, nonché la pervicacia con la quale le banche continuano a fare ostruzionismo sulla portabilità gratuita dei mutui, stanno facendo letteralmente infuriare il professor Mario Draghi, al punto da spingerlo ad abbandonare il suo tradizionale aplomb anglosassone ed a prendere carta e penna per strigliare le banche operanti nel nostro Paese per la loro sordità ai suoi accorati appelli e alle chiare prescrizioni legislative e minacciando di passare dalle parole ai fatti, anche per chiarire oltre ogni ragionevole dubbio che il rischio reputazionale si traduce in rischio, anche pesante, per gli stessi conti economici delle banche.
Ma la novità del giorno riguarda ancora una volta l’estremamente dispendiosa acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena, una storia veramente infinita che ha visto finalmente il via libera condizionato, ma molto condizionate, dell’Antitrust che ha imposto una vera falcidia di sportelli, soprattutto in zone che sarebbero state ad alta concentrazione di sportelli del gruppo, il tutto condito da severe prescrizioni in termini di governance e alla decadenza di un importante accordo di bancassurance con il colosso tedesco Allianz e che era in capo all’istituto padovano.
Ma continuano a trascorrere i giorni che ci separano dalla scadenza ultima dell’aumento di capitale della banca senese senza che dalle autorità preposte giunga il tanto atteso via libera alla fondazione per esercitare i suoi diritti e sborsare quei 2,5 miliardi di euro per mantenere inalterata la sua ferrea presa sulla banca, un esborso che, è giusto ricordarlo, equivale alla metà circa del patrimonio disponibile di un’entità che, secondo le norme vigenti, dovrebbe proprio occuparsi di ben altre e molto meritorie faccende, ma, si sa, l’attaccamento delle istituzioni e dei contradaioli di Siena alla loro banca è fuori discussione.
L’addio di Tommaso Padoa Schioppa al dicastero dell’Economia ed il ritorno di Giulio Tremonti nell’incarico che ha già ricoperto due volte è visto a Siena come un elemento di ulteriore preoccupazione, anche perché nessuno ha dimenticato l’opinione del controverso professore di scienza delle finanze sulla questione della governance del Monte dei Paschi, opinioni condensate in una norma che stabiliva un tetto massimo del 30 per cento alla quota azionaria di una banca detenibile da una Fondazione, norma che fu rivista a tempo di record solo grazie all’allontanamento di Tremonti dal governo ad opera di Fini e Casini ed alla maggiore disponibilità del suo successore Siniscalco alle esigenze senesi.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/
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