La settimana che si è appena chiusa ha spazzato via inesorabilmente i venti di ottimismo che una stampa sempre più embedded e un ministro del tesoro USA come Henry Paulson, supportato peraltro da molti comprimari, hanno cercato di soffiare addosso agli investitori ed ai risparmiatori sempre più ostinati nel più prolungato sciopero degli investimenti che sia stato dato modo di registrare dal secondo dopoguerra, risparmiatori ed investitori che continuano ad ostinarsi a non vedere quello che gli viene detto esserci proprio dietro l’angolo e che minaccaiano di restare di tale opinione fino a che non vedranno segni più che chiari di svolta sul mercato finanziario del loro paese e su quello globale.
Non so se quella maledetta sera di metà aprile il già citato Paulson ed il giovane e preparato Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, si rendessero conto appieno degli effetti che le loro prolusioni severe ed alquanto minacciose pronunciate davanti all’impaurito manipolo di loro ex colleghi e loro temporanei commensali avrebbero prodotto nell’immediato futuro, proprio a causa di quel loro imperioso invito ai banchieri più importanti del mondo di decidersi finalmente a dire la verità, ma proprio tutta la verità.
Non sono passate che un pugno di settimane ed ecco che piovono trimestrali di pessimo segno e gigantesche richieste di nuovo capitale come se piovesse, con il prevedibile e non trascurabile effetto di panico che queste notizie, vere per carità (forse neanche troppo), stanno contribuendo a diffondere tra il popolo dei risparmiatori e degli investitori che non possono fare a meno di confrontare l’entità delle svalutazioni e degli aumenti di capitale con flussi di ricavi che spesso si pongono al di sotto dei due sopra menzionati fenomeni.
Incurante di quello che la vulgata attribuisce come caratteristica degli indiani d’America, l’indiano d’India Vikram Pandit, si è reso reo di avere forse preso troppo sul serio i warning di Draghi e Paulson ed ha, come segnalavo nella puntata di ieri, deciso di spaventarci davvero tutti, rivelando che la sua un tempo potente e multinazionale banca, Citigroup, dispone di titoli per un ammontare equivalente ad una volta e mezza il prodotto interno lordo dell’Italia (diciamo pure il PIL italiano incluso il sommerso e le nostre future speranze) e che ha deciso di smaltirne una pinzillacchera come 500 miliardi di dollari, anche se nei prossimi due o tre anni, portandoli così da 2,200 a 1.700 miliardi, sgravandosi al contempo di qualcosa di più di 13 mila donne ed uomini di ogni ordine e grado che si illudevano di restare dipendenti da Citi almeno sino all’agognato momento della pensione.
La mossa audace e coraggiosa di Pandit, un vero e proprio outing come ho avuto modo di definirlo ieri, indica con un certo grado di esattezza che siamo ormai entrati nella seconda e più pericolosa fase della tempesta perfetta, quella nel corso della quale il gioco si fa davvero duro e dunque, come amava dire Lamberto Dini, i duri devono proprio entrare in campo, a meno che non vogliano rischiare di non trovarlo più questo benedetto campo.
Raccontano gli amanti del gossip finanziario newyorkese che ieri le luci degli augusti palazzi delle banche di investimento e delle sedi centrali delle principali banche globali sono rimaste ostinatamente accese sino a tarda notte, con un andirivieni di Chief Financial Officer e di Chief Operating Officer, tutte persone che dal 9 agosto non riescono a concedersi nemmeno uno straccio di week end, che entravano ed uscivano dalla sala che ospita il numero uno della banca di appartenenza per riferire all’altrettanto esausto capo a quanto ammonta l’outstanding al valore facciale dei titoli direttamente o indirettamente posseduti dall’entità di appartenenza, nonché le prevedibili modalità di smaltimento che dovranno realizzarsi in presenza di una esplosione dell’offerta che non mancherà di fare il gioco di una sempre più striminzita ed avida domanda (sempre in base alle dure e spietate leggi dell’economia).
Altro che le poche centinaia di miliardi di perdite già contabilizzate dalle varie entità che popolano il mercato finanziario globale o quegli altrettanto cospicui aumenti di capitale realizzati o in via di realizzazione, ora siamo veramente giunti al nocciolo del problema ed è adesso che vedremo piovere sul mercato titoli per migliaia, se non per decine di migliaia, di miliardi di dollari, senza peraltro che si sia accresciuto il grado di appetibilità degli stessi, basti pensare che, con riferimento all’ultimo periodo di cui si dispone di dati attendibili, il volume di CDO, LBO, ABS e di tutte le altre diavolerie del genere esitate in un trimestre è stato nell’ordine delle decine di miliardi di dollari contro i 700 miliardi del primo trimestre del 2007, per non parlare dei prezzi iperscontati ai quali sono stati, e con estrema fatica, piazzati.
Tanto per portarmi avanti con il lavoro, vorrei informare i miei pochi ma affezionati lettori sul capitolo prossimo venturo della saga del moral hazard, rappresentato da quel vergognoso commercio di derivati a senso unico che sta caratterizzando il mercato del petrolio, un’attività nella quale si sta esercitando da tempo e con volumi di fuoco veramente impressionanti la solita preveggente Goldman Sachs, che, assieme ad una flottiglia di speculatori al seguito, sembra del tutto ignorare il sostanziale equilibrio tra una generosa offerta di petrolio ed una domanda in via di progressivo raffreddamento, un raffreddamento in larga misura determinato dagli effetti dei sempre più alti marosi della tempesta perfetta e che si sta progressivamente estendendo anche ai voraci paesi asiatici che dalla domanda statunitense pur dipendono per le loro esportazioni.
Mancano sei giornate lavorative alla scadenza fissata per l’esercizio dell’aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena e non sono pochi quanti, tra gli interessati, stanno guardando con impazienza al calendario, alla luce del fatto che l’integerrimo e severo ministro dell’Economia uscente, Tommaso Padoa Schioppa, ha lasciato sgombra la scrivania che appartenne all’ancor più severo ed ancora più austero Quintino Sella, sgombra di tutto tranne che della pratica propedeutica all’autorizzazione o meno alla partecipazione della Fondazione MPS al proporzionale aumento di capitale della omonima banca senese.
Pur essendo molto apprezzabile che Padoa Schioppa (notate la coincidenza del primo dei due cognomi dell’ex ministro) non abbia voluto togliere la soddisfazione di prendere una decisione così importante al suo successore, Giulio Tremonti, non sono in pochi ad aver avuto un sobbalzo apprendendo stamane dai giornali che il primo oggetto a fare la sua comparsa sulla già citata scrivania posta al piano nobile del dicastero di via XX Settembre in Roma sia stato proprio l’ormai celebre barattolo di pelati Cirio che tanto inquietava i visitatori dell’ombroso uomo politico, soprattutto se si trattava di persone militanti nel settore bancario o in quello assicurativo, persone che pensavano proprio di essersi liberati di Tremonti all’indomani di quel vero e proprio colpo di palazzo ordito da Fini e Casini, nonostante la strenua difesa dell’esponente di Forza Italia operata dal capo della Lega, Umberto Bossi.
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Ricordo che il diario della crisi è presente anche sul mio blog http://www.diariodellacrisi.blogspot.com/ e che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/