sabato 10 maggio 2008

Il coraggioso outing di Vikram Pandit


Ad ogni giorno basta veramente la sua pena e così dopo le pessime notizie provenienti dal colosso svizzero UBS mercoledì, la quasi catastrofe dei conti della prima compagnia di assicurazione statunitense, l’AIG, annunciata ieri, non poteva certo mancare il botto finale, rappresentato dall’annuncio proveniente da Vikram Pandit, il banchiere indiano che da cinque mesi è alla guida di Citigroup (prima banca commerciale degli Stati Uniti d’America, ma anche una delle più grandi banche globali del mondo), un annuncio fatto nel pieno dell’Investor Day del gruppo e che rende noto al mondo che Citi intende mettere in vendita 500 miliardi di titoli nei prossimi due tre anni, con l’obiettivo di portare l’ammontare complessivo di questa voce dell’attivo da 2.200 a 1.700 miliardi di dollari.

Pur essendo ben lungi dal sostenere che si tratta soltanto di titoli della finanza strutturata, non vi è dubbio alcuno che questi costituiscano una fetta rilevante di questo immenso stock di titoli, così come è evidente che soltanto una parte di questa montagna di carta risultava nei bilanci di Citigroup, in quanto una larga parte di essi era stata sapientemente collocata nel tempo in comodi recessi denominati Conduits o Structured Investment Vehicles (SIV), entità che hanno il pregio di essere opportunamente appostati, o meglio i corrispondenti impegni di firma relativi, off balance sheet,

Era dalla tragicomica cena svoltasi tra gli esponenti del gotha bancario ed i ministri economici e i Governatori delle banche centrali del G7, che aspettavo pazientemente che qualcuno facesse la prima mossa in questa specie di gioco del gatto con il topo avviata dalle severe parole di Draghi e da quelle apertamente minacciose pronunciate da un ex collega dei CEO e Chairman presenti, l’ineffabile ministro del Tesoro USA pro tempore che prende il nome di Henry Paulson, un uomo che per lunghissimo tempo ha guidato in modo incontrastato quell’entità assolutamente preveggente che, a sua volta, prende il nome di Goldman Sachs, un’indiscussa e quasi sacrale istituzione che ha avuto l’onore di ospitare, per un periodo di tempo variabile, quasi tutti i presenti a quel banchetto, indifferentemente dal lato della barricata occupato da ciascuno quella sera.

Confesso che non mi ha neanche stupito che sia toccato al novellino Pandit prendere il coraggio a due mani ed esibirsi in un outing che rischia di avere una risonanza ben maggiore di quella che avrebbe avuto un’eventuale dichiarazione delle sue preferenze sessuali (della quale, francamente, non frega niente a nessuno), una confessione che la dice lunga su quelle che, fatte le debite proporzioni, dovrebbero essere le dimensioni totali della montagna di titoli, che siano o meno parto degli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto diviene quasi irrilevante, che rischia di soffocare il pianeta molto di più di quanto lo stia già facendo quell’immonda invenzione rappresentata dai sacchetti di plastica.

So bene che la preveggente Goldman e quegli imitatori di UBS si sono mossi molto per tempo nell’alleggerirsi di montagne di titoli in loro possesso e che fra gli allegri ed incoscienti acquirenti vi erano le altre quattro componenti delle Big Five, nonché un bel mazzo di banche globali basate in tutto il mondo, un rilevante numero di compagnie di assicurazione, per finire a quelli che rischiano di essere, come sostiene con nozione dei fatti il Fondo Monetario Internazionale, le principali vittime di questo autentico gioco al massacro e cioè i fondi pensione ed i fondi di investimento basati all over the world.

Ma so altrettanto bene che il gioco non è riuscito del tutto e che, pur avendo evitato il fallimento certo, anche queste due entità globali sono rimaste con il cerino in mano, del che danno contezza le mega svalutazioni che stanno operando trimestre dopo trimestre, nonché le concordanti voci dei bene informati che raccontano di vendite multimiliardarie di titoli della finanza strutturata che non trovano posto nelle pur capienti discariche a cielo aperto fornite generosamente dalla Fed e da altre banche centrali compiacenti, vendite fatte al di fuori dei circuiti ufficiali ed aventi come controparti che hanno il pregio di garantire a Goldman Sachs, ad UBS e ad un’infinita pletora di altri venditori a sconto il più assoluto riserbo.

Né è un caso che l’ultima mega svendita operata da UBS l’altro ieri sia stata resa nota urbi et orbi, in quanto fa parte del nuovo corso di glasnost imposta da quei falsi amici ed ex colleghi di Draghi Paulson e compagnia cantante che non ne potevano più di recitare, del tutto inascoltati, il loro mantra: dite la verità, ma proprio tutta la verità; almeno sino a che non hanno aggiunto, forse facendo anche la faccia feroce, altrimenti ci arrabbiamo sul serio!

Proprio che avevo smesso di scervellarmi dietro calcoli presuntivi sulle dimensione del disastro derivante dalla creazione infinita di carta (altro che subprime!), questo primo outing e quelli che terranno viva la nostra attenzione da ora allo scadere dell’ultimatum a fine giugno, giusto in tempo per la relazione finale di Draghi al summit dei sette grandi del mondo previsto per metà luglio, in triste coincidenza con i primi fallimenti di hedge fund creati da quell’orso di Stearns prematuramente defunto qualche mese orsono, rende, ed ancora di più renderà, il calcolo molto più facile, ma non per questo meno catastrofico e, per riguardo alle coronarie dei miei lettori, mi asterrò, almeno per ora, dal renderlo noto.

Per non lasciare i miei pochi ma fedeli lettori nella suspance, voglio suggerire loro di dare una scorsa alla dimensione dei mercati finanziari delle tre principali aree economiche del pianeta (accorpando doverosamente la piazza finanziaria londinese nell’area dell’euro), fornendo il dato della sola euro che è cifrabile, molto per difetto, in 20 mila miliardi di euro (pari ad oltre 31 mila miliardi di dollari, ai cambi attuali).

Volgendo anche oggi lo sguardo all’Italia, credo proprio che il più che deludente andamento del titolo Unicredit Group post acquisizione di Capitalia avvenuta notoriamente senza l’effettuazione della due diligence rappresenti uno dei classici casi in cui il mercato anticipa i dati rappresentativi della gestione, una gestione che è in qualche modo ben fotografata dall’ultima trimestrale, non solo e non tanto dal dimezzato dell’utile netto, quanto dalle criticità che emergono, come era peraltro largamente prevedibile, dalla pesantezza dei risultati della divisione Corporate & Investment Banking, dalle preoccupazioni relative al rallentamento dello sviluppo della redditività nell’Est dell’Europa, nonché dalle difficoltà realtive all’impegnativo processo di ristrutturazione in corso, un processo avviato pressoché all’indomani della conclusione di quello altrettanto impegnativo e che aveva dato vita al modello S3.

La sensazione prevalente tra gli operatori è sintetizzabile nell’osservazione del fatto che l’indiscusso numero uno di Unicredit Group, notoriamente abile a gestire le fasi espansive, incontri maggiori difficoltà facendo per la prima volta i conti con una fase discendente del gruppo.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/