martedì 6 maggio 2008

Bank of America non vuole farsi carico dei rischi di Countrywide


Ero così impegnato a digerire le presunte affermazioni attribuite a Warren Buffett, che, ieri, ho clamorosamente bucato il passo indietro compiuto da Bill Gates nei confronti dell’acquisizione del motore di ricerca Yahoo, una acquisizione per compiere la quale aveva messo sul piatto qualcosa come 44 miliardi di dollari cash, ma che non aveva ritenuto di portare a quei 53 miliardi, altrettanto in moneta sonante, che venivano richiesti dagli azionisti di riferimento di Yahoo.

Non credo sia secondario che tutto ciò doveva essere già molto chiaro a Steve Balmer ed al suo socio e capo indiscusso, il monopolista e filantropo Gates, ben prima di quella strana seduta di venerdì scorso, una seduta che ha visto circolare molte veline apparentemente ben informate che davano per certa la chiusura positiva dell’operazione nel corso del week end, con relativo rialzo significativo, e come si è poi visto ampiamente ingiustificato, delle azioni di Yahoo, senza che l’ormai celebre Effe O Ixs, che poi è lo spelling del capo della Securities and Exchange Commission, trovasse nulla da ridire su quanto stava per l’ennesima volta accadendo proprio sotto il suo naso.

D’altro canto bisogna comprendere i sentimenti di Fox, un uomo che ha scoperto che i suoi più che sofisticati modelli, costati un occhio ai soliti noti e cioè sempre i contribuenti, non includevano l’ipotesi del rischio di controparte, ove la stessa avesse a disposizione, come nel caso dell’orso di Stearns, decine e decine di miliardi di dollari di titoli di prima qualità ma che, come si è scoperto in una drammatica notte di qualche mese fa, non erano considerati garanzia sufficiente per ottenere l’autorizzazione a tirare su linee interbancarie per importi molto più modesti.

Poiché piove sempre sul bagnato, Bank of America ha dichiarato che non si sente assolutamente impegnata a garantire per le esposizioni della nubenda Countrywide, il colosso del mortgage su cui ha messo le zampe ad un prezzo assolutamente irrisorio (4 miliardi di dollari, ma c’è chi giura, tra gli esperti, che alla fine il prezzo verrà rivisto e sensibilmente verso il basso), un prezzo che aveva come unico presupposto l’elevato rischio insito in un settore che si trova in una situazione di vero e proprio meltdown, ma che sarebbe del tutto out of the money ove l’acquisto avvenisse, come si dice, pro soluto e non pro solvendo.

Non credo che il numero uno di bank of America, che non ha, peraltro, ancora ottenuto il necessario via libera della Fed all’acquisizione, si renda del tutto conto delle conseguenze della sua presa di posizione sulla valutazione che il mercato sta facendo del rischio intrinseco di Countrywide, anche alla luce del fatto che sono state diffuse proprio oggi previsioni poco ottimistiche sulle perdite derivanti da svalutazioni che potrebbero apparire nei bilanci del primo trimestre delle macro entità denominate Fannie Mae e Freddie Mac, oggetto di perentori inviti a smetterla di calcolare l’entità dei crediti problematici sulla base di formule statistiche particolarmente addomesticate, così come gli investitori vengono quotidianamente messi in guardia dal considerare i 3.200 miliardi di GSE alla stregua dei Treasury Bonds, per il semplice motivo che questi titoli emessi da queste entità semipubbliche o semiprivate, a seconda dell’angolo visuale, non sono garantite che dalle suddette entità che li hanno emessi in grande quantità ed a tassi molto poco remunerativi anche, se non proprio, approfittando di questo spiacevole equivoco.

Così come sta venendo meno quella sorta di mini bolla speculativa che si era creata nelle scorse settimane sui titoli delle due principali compagnie monoline, MBIA ed Ambac (esposte per garanzie su titoli della finanza strutturata per qualcosa che assomiglia molto a 1.500 miliardi di dollari), circostanza che si è verificata che dopo aver letteralmente polverizzato le quotazioni rispetto ai massimi toccati nelle ultime 52 settimane e mentre sembrava prossima il colpo di grazia sui rispettivi rating da parte delle tre principali agenzie impegnate in questa attività, si era giunti ad una specie di stasi che ha convinto non pochi speculatori ad operare ora al rialzo, ora al ribasso sui due titoli, con scommesse di segno opposto che hanno portato alle stelle la già elevata volatilità cui erano soggette da mesi le quotazioni dei due titoli, il tutto senza che il già citato Effe O Ix ritenese di dover almeno sollevare l’ormai classico sopracciglio.

Devo dire che sono stato molto lieto questa mattina di leggere una bella intervista che un giornalista di Repubblica ha fatto al famoso economista Nouriel Roubini, il quale, con la chiarezza che gli è propria, si è peritato di confutare, con dovizia di particolari, l’idea prevalente nella maggior parte dei commenti di questi giorni e che vede una sorta di soft landing dell’economia statunitense, un atterraggio morbido dal quale ci si potrebbe risollevare in un lasso di tempo relativamente breve, un tempo che, invece, secondo lo stesso Roubini non potrà essere inferiore ai 18 mesi a partire dall’inizio dell’anno.

Non voglio sciupare la sorpresa ai lettori che vorranno gustare l’argomentata analisi del noto economista, ma mi preme sottolineare come sia stato del tutto ignorato dai giornalisti emebedded il “particolare” legato al cosiddetto effetto scorte, un effetto al netto, comeè doveroso fare, del quale la mini crescita segnalata nel primo trimestre sarebbe, in realtà, una recessione cifrabile nello 0,2 per cento, circostanza peraltro già segnalata dalla rilevazione privata a cadenza mensile che evidenzia valori di crescita dell’economia statunitense di segno negativo sin dal gennaio di questo sempre più orribile 2008.

Capisco che la speranza è sempre l’ultima a morire e che tutti vorremmo che la realtà si conformasse di più ai nostri desideri, ma considerare come vendute merci che hanno solo affollato a dismisura i magazzini dei produttori costituisce una distorsione della realtà che è destinata ad infrangersi al redde rationem rappresentato dalle prossime letture del Gross National Product USA.

Che l’umore degli operatori stia di nuovo volgendo al peggio è, peraltro, dimostrato dalla reazione alquanto piatta che si è verificata dopo l’uscita del dato ISM relativo all’importantissimo settore dei servizi, un settore che pesa per l’80 per cento circa sul totale dell’economia americana, un dato che ha segnato a sorpresa un sensibile rimbalzo, ma che si è infranto contro le nuove preoccupazioni per le difficoltà provenienti dal comparto finanziario e per l’ennesimo balzo in avanti del petrolio che si è portato nuovamente a 120 dollari, un balzo in avanti che sembra ignorare del tutto il sensibile, per quanto a mio avviso temporaneo, recupero del dollaro nei confronti di tutte le altre principali valute.

Ricordo che il diario della crisi è presente anche sul mio blog http://www.diariodellacrisi.blogspot.com/ e che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/