venerdì 16 maggio 2008

La severa lezione del professor Bernspan


Non c’è che dire, smaltita la sbornia da tagli sempre più aggressivi dei tassi di riferimento del mercato monetario e, se possibile, ancora più eccessivi di quel tasso ufficiale di sconto relativo ad un negletto tipo di operatività che i più giovani tra i banchieri rampanti operanti all’ombra del Wall neanche immaginavano esistesse, Bernspan, forse stanco di stare perennemente behind the curve se non behind the market, ha avuto un sussulto di consapevolezza e si è ricordato improvvisamente di essere la massima autorità regolatrice e di vigilanza del settore creditizio statunitense, al pari di personaggi come Mario Draghi o Jean Claude Trichet.

In un certo non improvvisato speech, il presidente della Federal Reserve ha ieri ammonito una platea un po’ composita e certamente attonita rispetto alla repentina trasformazione del nostro che il mestiere del banchiere non può prescindere dalla necessaria attitudine ad un’attenta gestione dei rischi e di un’altrettanto attenta gestione delle attività e delle passività delle banche che sono chiamati a guidare, chiarendo che l’intuito ed un’adeguata strumentazione rappresentano gli ingredienti necessari, anche se a volte e purtroppo non sufficienti, per evitare di cadere all’improvviso nelle voragini di cui è disseminata la strada di chi dimentica che di avidità e di eccessi è lastricata più la strada del fallimento che quella di un progresso sostenibile di qualsiasi forma di intrapresa, figurarsi di quell’arte poco coltivata che è il mestiere del banchiere, un'arte che ha poco ha che fare con le improvvisazioni dei tanti avvocati o ingegneri catapultati al vertice delle investment bank o delle banche più o meno globali.

Se l’un tempo sereno e ottimista studioso delle crisi finanziarie, più aduso ad amabili conciliaboli con i colleghi e gli studenti del prestigioso ateneo di Princeton, avesse tenuto bene a mente la lezione che ieri ha impartito da un palco, avrebbe molto probabilmente messo in atto delle efficaci contromisure nel pur breve tempo di presidenza della Fed prima del fatidico 9 agosto del 2007, forse sarebbe anche riuscito nella ciclopica impresa di limitare l’intensità sismica della tempesta perfetta ormai in corso da più di nove mesi, senza che si riesca a vederne la fine, ameno che non si appartenga alla folta schiera degli esperti e dei giornalisti più o meno embedded o dell’ottimista di professione Henry Paulson, un uomo che la fine del tunnel l’ha vista almeno una decina di volte in meno di dieci mesi.

Nel frattempo, del tutto incurante dei facili profeti di riprese sempre dietro il fatidico angolo, la realtà continua ad imporre la sua ben più cruda verità ed è così che per la seconda volta in tre mesi, la produzione industriale è scivolata all’indietro in modo consistente, stavolta e con riferimento al mese di aprile, dello 0,7 per cento su base mensile, mentre il tasso di utilizzazione degli impianti ha bucato verso il basso la soglia psicologica dell’80 per cento, portandosi per la prima volta dall’ottobre del 2005 (subito dopo il disastro determinato su New Orleans dal ciclone Katrina, quando era al 79,8) al 79,7 per cento.

Credo sia utile segnalare che, oltre ad essere preoccupante di per sé, il dato ha preso in contropiede gli analisti che pure avevano previsto una flessione dello 0,4 per cento contro la crescita segnalata dall’aggregato nel mese di marzo, rendendo vano il solito giochetto di prevedere una forte contrazione che viene generalmente superata in positivo dal dato effettivo, giochetto vanificato da un andamento dell’attività industriale e manifatturiera che non può essere insensibile alla contrazione sempre più evidente della domanda; mentre l’altro dato del giorno, quello relativo ai jobless claims, presenta aspetti rilevanti non tanto per l’incremento di 6 mila richieste di sussidi di disoccupazione, quanto per il perpetrarsi della situazione che vede il totale dei sussidi erogati mantenersi al di sopra dell’altrettanto psicologica soglia dei 3 milioni di persone sussidiate (3.006.000 per gli amanti dell’esattezza delle statistiche).

In quella che minaccia sempre più di trasformarsi in una saga infinita, il tentativo di Bill Gates e della sua Microsoft di bruciare le tappe per diventare il vero ed unico concorrente del difficilmente eguagliabile Google, mediante l’acquisizione del veterano dei motori di ricerca, Yahoo, il raider miliardario Carl Icahn, puntando un cip di soli 50 milioni di dollari, si è posto alla testa degli infuriati azionisti della società che si vedevano già in tasca i soldi derivanti dall’offerta di Microsoft, un’offerta non proprio generosissima, ma che si poneva nettamente al di sopra delle quotazioni dell’azione al momento del lancio dell’OPA amichevole poi clamorosamente ritirata di fronte alla resistenza dell’attuale gruppo dirigente, sulla permanenza del quale non scommetterei un soldo bucato.

La sostanziale tenuta dei prezzi del greggio ad onta delle vistose oscillazioni del dollaro in gran parte legate all’iperattivismo delle solite banche centrali, dimostra con palmare evidenza la prevalenza del gioco speculativo via derivati messo in moto dalle maggiori banche di investimento con in scia una vera e propria flotta di speculatori di ogni ordine e risma sul leit motiv sinora prevalente che imputava alla debolezza del biglietto verde quasi ogni colpo per l’ormai perenne rialzo delle quotazioni dell’oro nero, un gioco specultativo, sia detto solo per inciso, che minaccia di surclassare il tiro al piattello dei ribassisti sulle azioni delle Investment Banks che pure procede imperterrito e con successo da settembre del 2007.

Il diktat di metà aprile di Draghi e Paulson miete, nel frattempo, sempre maggiori successi, portando sempre di più verso l’alto l’asticella delle perdite delle banche e delle compagnie di assicurazioni legate a svalutazioni in gran parte legate ai titoli della finanza strutturata, mentre porta sempre più verso il basso le quotazioni delle monoliners, mentre ancora poco si sa dei maggiori indiziati in relazione al conto finale della tempesta perfetta, coincidenti, secondo gli economisti del Fondo Monetario Internazionale sopravvissuti alla cura dimagrante imposta da Strauss Kahn, nei silenziosissimi fondi pensione e negli altrettanto silenti fondi di investimento, che, lo ricordo, non hanno emesso un fiato neanche quando l’FMI pubblicò il famoso rapporto che addebitava loro perdite finali per la non trascurabile cifra di 665 miliardi di dollari.

Il piccolo particolare che continua, però, a mancare rispetto al sempre più alto montante delle svalutazioni e delle conseguenti perdite di bilancio derivanti dai più o meno coraggiosi outing dei vertici delle banche globali è un adeguato livello di ripatrimonializzazione che non è certo dato dalla somma dei pur rilevantissimi aumenti di capitale che ormai si susseguono a raffica e che, nella maggior parte dei casi, sono contestuali ai ferali annunci a cadenza trimestrale emessi dalle stesse banche, in quanto si tratta di aumenti che tengono sì conto dei flussi di perdita, ma non dello stock delle posizioni problematiche, uno stock ancora a livelli da vero mal di testa e che richiederebbe iniezioni di denaro fresco di livello tale da indurre il più coraggioso degli investitori a fuggire a gambe levate e/o ad unirsi alla già folta schiera degli scommettitori al ribasso sulle azioni delle banche che osassero tanto.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/