Non è bastata neanche una mega perdita di 2,4 miliardi di dollari, dopo svalutazioni legate a strumenti derivati per 3,6 miliardi di dollari circa, per convincere le due maggiori agenzie di rating, Standard & Poor’s e Moody’s, a seguire l’esempio di Fitch che ha di recente degradato MBIA, il colosso delle compagnie di assicurazione monoline, anche se solo di un gradino, portandola dalla tripla A ad AA.
E’ largamente noto che difficilmente una monoliner potrebbe sopravvivere più di qualche mese se le agenzie di rating portassero il loro rating lontano dai livelli massimi ed è per questo che le due maggiori agenzie, incuranti delle sempre più pressanti iniziative dei governi e delle banche centrali per giungere ad una radicale riforma del loro operato, stanno arrampicandosi letteralmente sugli specchi pur di evitare di seguire l’esempio di Fitch che, storto morto, un timido downgrade di MBIA e di Ambac lo ha, infine, emesso, anzi, quello relativo ad Ambac (AA) ed al suo braccio armato Ambac Financials (A) data addirittura alla metà del gennaio di quest’anno.
Non c’è che dire, al di là delle giaculatorie di Draghi, Paulson e compagnia cantante e gli strepiti e le sempre meno larvate minacce dei politici di ogni ordine e rango, le agenzie di rating ancora non sono finite sul banco degli imputati e restano al momento al di fuori della portata di tiro delle armi spianate degli sceriffi del recentemente costituito pool tra i procuratori distrettuali, il Federal Bureau of Investigations ed un nugolo di altre entità federali che stanno cercando di coordinare i loro sforzi per individuare le responsabilità del marasma attuale.
D’altre parte, le oltre 200 pagine del progetto di riforma delle regole di vigilanza sui mercati e delle stesse entità chiamate ad effettuarli proposto dall’ineffabile Henry Paulson e caratterizzato, per candida ammissione dell’autore, dalla necessità di un periodo di tempo per realizzarne le previsioni cifrabile in anni se non in decenni, o le 90 pagine della bozza di documento finale del Financial Stability Forum presentate da Mario Draghi a metà aprile, corredate da ben 65 raccomandazioni, rappresentano in realtà la classica alluvione di diagnosi e ricette buone per tutte le stagioni, tranne per quella presente, per non dire che equivalgono alla classica chiusura delle porte della stalla quando la mandria è bella che scappata.
Ma oggi vi era una bella e folta platea ad ascoltare il Chief Executive Officer di J.P. Morgan-Chase, James Dimon, l’uomo che è pronto a passare alla storia per aver preso al laccio l’orso di Stearns per trenta denari (peraltro gentilmente offerti dalla Fed di New York), che spiegava al gotha finanziario della Grande mela che, seppure la tempesta perfetta ha compiuto ormai il suo nono mese, la recessione dell’economia statunitense è soltanto ai suoi inizi, così come nessuno è al momento in grado di dire se la stessa avrà caratteristiche più o meno profonde.
Dimon sapeva benissimo di parlare di corda in casa dell’impiccato, in quanto la sua conferenza era gentilmente ospitata nella sede newyorkese dell’extracomunitaria e disastrata UBS, sì proprio la banca globale che ha avuto il merito nei giorni scorsi di farci capire quanto siano da svalutare i titoli della finanza strutturata, avendo venduto uno stock di merce della migliore qualità con uno sconto del 32 per cento, una svalutazione che tutti hanno applicato alla mega svendita per 500 miliardi di dollari annunciata il giorno dopo dal nuovo CEO di Citigroup, l’unico, forse perché non americano, ad avere creduto che le minacce di Draghi, Paulson e dei lor colleghi del G7 fossero concrete e che si è quindi precipitato a prodursi nel più clamoroso outing che la storia del mercato finanziario globale ricordi.
Come ogni oratore che si rispetti, soprattutto se si tratta di un banchiere, Dimon non ha resistito alla tentazione di prodursi nella veste di barzellettiere, facendo il verso al presidente statunitense ormai prossimo all’uscita e alla sua infelice battuta sulla portaerei Indipendence nel lontano 2003 (Mission accomplished!) ha voluto chiarire che l’acquisizione di Bear Stearns non è stata perfezionata, al che molti hanno pensato che anche questo più che incentivato deal rischia di fare la fine della sempre più improbabile acquisizione di Countrywide da parte di una Bank of America spaventata più dai risvolti penali derivanti dalle incaute ammissioni di alti dirigenti della banca di Mozilo che dall’entità dei rischi finanziari in pancia alla stessa.
Se salteranno le due tanto strombazzate e veramente cheap acquisizioni, si confermerà un dato che è emerso sino dall’inizio della tempesta perfetta e cioè che nessuna banca in difficoltà è stata salvata dalle sue concorrenti, né quelle tedesche, né la britannica Northern Rock, una banca che, dopo un’asta che somigliava ai tragici eventi di Vernicino, ha conosciuto l’onta veramente ignominiosa per un’entità del mercato finanziario più o meno globale di essere nazionalizzata proprio nella nazione che si è vantata di essere stata la prima, sotto l’inflessibile guida di Mrs Thatcher a privatizzare tutto il privatizzabile.
Pur trattandosi di una domanda del tutto retorica e che ho posto a me stesso e ai miei lettori ripetute volte, non posso fare a meno di chiedermi quale sia il motivo di questa improvvisa inappetenza dei banchieri, dopo una lunghissima fase nel corso della quale sembrava che fossero pronti a comprare, ed a qualsiasi prezzo, qualsiasi banca venisse messa in vendita, anche a costo di rinunciare alla due diligence.
Credo proprio che la risposta, o almeno una delle risposte, a questo inquietante interrogativo l’abbia fornita proprio Vikram Pandit venerdì scorso quando ha svelato la voragine rappresentata da un ammontare di titoli della finanza strutturata e non in possesso della sua banca, un ammontare che rappresentava un multiplo di quanto i più che certificati e molto patinati bilanci di Citigroup evidenziassero.
Cosa farà adesso Bernspan e gli altri banchieri centrali che pensavano che bastasse aprire le loro discariche a cielo aperto per ospitare una quantità di titoli della finanza strutturata che al massimo della loro capienza non basterebbero ad ospitare neanche i titoli di una sola delle banche globali o di investimento attualmente in ambasce, oppure che fosse una questione di livello di tassi di interesse ai quali fare avvenire l’operazione di sconto?
Cosa faranno ora che le loro pistole sono maledettamente scariche e non vi è speculatore al mondo che non sappia che giocare al ribasso sui titoli di queste banche, cosa che peraltro i più avveduti di loro fanno da settembre dell’anno scorso, spesso comodamente sdraiati su una spiaggia di qualche esotica isola, è diventato veramente un gioco da ragazzi sul quale concentrare i propri sforzi, smettendola di giocare sui derivati one way sul petrolio, le derrate alimentari e i metalli preziosi, giunti ormai a livelli ai quali diviene convenienti girarsi e prendere profitto, anche alla luce del fatto che Goldman Sachs ha lanciato un chiaro sell signal sparando prezzi del tutto irrealizzabili.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/
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