A un solo giorno di distanza dalla firma apposta alla legge che prevede tagli alle tasse e interventi di spesa per complessivi 787 miliardi di dollari, il giovane presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, ha reso noto ieri dall’Arizona il suo piano volto a fermare l’ondata di procedure di esproprio delle case dovuto alle crescenti difficoltà cui vanno incontro i mutuatari per far fronte alle relative rates, in molti casi rese insostenibili dalle clausole trappola previste dai cosiddetti subprime e dai micidiali mutui ARM.
La decisione della nuova amministrazione era divenuta di estrema urgenza alla luce del fatto che, in assenza di interventi, oltre otto milioni di famiglie entro i prossimi quattro anni si sarebbero andati ad aggiungere a quante, circa quattro milioni, hanno già subito l’umiliazione della procedure di esproprio e hanno dovuto lasciare le loro abitazioni che, nella maggior parte dei casi, sono state già messe all’asta, spingendo verso il basso i prezzi delle stesse, mentre si è appreso sempre ieri che le vendite di nuove case e i permessi di costruzione sono crollati in gennaio a livelli di crescita su base annualizzata mai visti negli ultimi 50 anni.
Entrando un po’ di più nei dettagli, il piano prevede lo stanziamento di 75 miliardi di dollari volti a favorire la rinegoziazione dei mutui più a rischio di insolvenza , mentre 100 miliardi subito e altri cento successivamente andranno a Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti del mortgage nazionalizzati in fretta e furia dal trio Bush-Paulson-Bernspan nel mese di ottobre del 2008, anche se non è chiaro quanta parte di queste somme servirà a rimborsare i famigerati GSE in scadenza e quanto sarà, invece, il denaro fresco utilizzabile per erogare nuovi mutui.
Come ho ricordato più volte nel Diario della crisi finanziaria, la nuova amministrazione sta mettendo in pratica il piano della presidentessa dell’ente federale che si occupa del problema abitativo e che prevedeva appunto di prendere il toro per le corna, eliminando le previsioni legislative che favorivano l’indisponibilità delle banche e delle finanziarie a rinegoziare i mutui, misure che se fossero state prese quando vennero proposte nel lontano mese di settembre del 2007 avrebbero consentito a oltre due milioni di americani di non perdere la loro casa, una soluzione resa impossibile da quell’Hank Paulson che non ha mai nascosto di stare pervicacemente dalla parte di Wall Street, per lui molto, ma molto più importante delle tante Main Street presenti nella totalità delle città statunitensi!
La scoperta della nuova frode bancaria da parte della Securities and Exchange Commission ha determinato la formazione di lunghe code agli sportelli della filiale di Nassau, Bahamas, della Stanford International Bank, mentre si è saputo che R. Allen Stanford non sarebbe riuscito a prendere il volo per Nassau solo perché il proprietario dell’aereo privato che voleva prendere in affitto avrebbe rifiutato la carta di credito sventolata sotto il suo naso dal miliardario texano che risulta essere cittadino delle isole note come paradiso fiscale, oltre che cittadino statunitense.
Fa riflettere il fatto che, nonostante l’annuncio di ulteriori interventi governativi per poco meno di 1.100 miliardi di dollari, i tre principali indici azionari statunitensi non sono riusciti ieri a recuperare le forti perdite registrate martedì, anche se non va sottovalutato il forte impatto psicologico derivante da episodi, come quelli di Madoff e Stanford, che minano alla base la già scarsa fiducia nutrita nei protagonisti di un mercato finanziario globale oramai trasformatosi un immenso casinò a cielo aperto che non ha nulla da invidiare alle scintillanti case da gioco di Las Vegas, del genere di quelle che hanno portato alla bancarotta il miliardario Donald Trump, un tempo noto per le vicende matrimoniali e per i suoi famosi grattacieli.
Fanno impressione i piani di ristrutturazione e di rilancio presentati dalla General Motors e dalla Chrysler appena in tempo rispetto alla scadenza loro imposto dal Governo, una sensazione che non è dettata tanto dalle cifre richieste dalle due entità tecnicamente fallite, 16,6 e 5 miliardi di dollari, rispettivamente, quanto per le annunciate chiusure di stabilimenti e per il previsto taglio, per la sola General Motors, di poco meno di 50 mila dipendenti, una parte dei quali sono lavoratori americani attualmente occupati nei quindici stabilimenti per i quali è prevista la chiusura o la cessione, un approccio chiaramente ispirato al downsizing che non credo proprio farà felice Obama.
Continuo a ritenere che gli Stati Uniti d’America stiano facendo davvero tutto il possibile per porre delle dighe più o meno solide di fronte ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo, anche alla luce del fatto che hanno impegnato poco meno di diecimila miliardi di dollari a tale scopo, seppure sono certamente fondate le critiche mosse all’efficacia della prima parte di questa montagna di soldi che è stata già spesa, in particolare di quelle migliaia di miliardi di cui hanno beneficiato le prime sei grandi banche sopravvissute, senza che da parte delle stesse vi fossero impegni esigibili in merito alla non secondaria questione del mantenimento di un adeguato flusso di finanziamenti alle famiglie e alle imprese.
Mentre restiamo in trepida attesa rispetto alle caratteristiche innovative promesse dai componenti del Dream Team obamiano, quello che è certo e che in Europa regna nel frattempo un vero e proprio stato confusionale che sembra pervicacemente impedire ai leaders politici e ai banchieri centrali di individuare uno straccio di piano comune per impedire il collasso delle grandi banche europee e la chiusura a catena degli stabilimenti industriali, mentre stendo un pietoso velo di silenzio sulla performance delle autorità giapponesi, di quelle russe e cinesi, per non parlare poi dei paesi emergenti europei e di quelli asiatici per i quali non esiste alcuna rete di protezione.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .
La decisione della nuova amministrazione era divenuta di estrema urgenza alla luce del fatto che, in assenza di interventi, oltre otto milioni di famiglie entro i prossimi quattro anni si sarebbero andati ad aggiungere a quante, circa quattro milioni, hanno già subito l’umiliazione della procedure di esproprio e hanno dovuto lasciare le loro abitazioni che, nella maggior parte dei casi, sono state già messe all’asta, spingendo verso il basso i prezzi delle stesse, mentre si è appreso sempre ieri che le vendite di nuove case e i permessi di costruzione sono crollati in gennaio a livelli di crescita su base annualizzata mai visti negli ultimi 50 anni.
Entrando un po’ di più nei dettagli, il piano prevede lo stanziamento di 75 miliardi di dollari volti a favorire la rinegoziazione dei mutui più a rischio di insolvenza , mentre 100 miliardi subito e altri cento successivamente andranno a Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti del mortgage nazionalizzati in fretta e furia dal trio Bush-Paulson-Bernspan nel mese di ottobre del 2008, anche se non è chiaro quanta parte di queste somme servirà a rimborsare i famigerati GSE in scadenza e quanto sarà, invece, il denaro fresco utilizzabile per erogare nuovi mutui.
Come ho ricordato più volte nel Diario della crisi finanziaria, la nuova amministrazione sta mettendo in pratica il piano della presidentessa dell’ente federale che si occupa del problema abitativo e che prevedeva appunto di prendere il toro per le corna, eliminando le previsioni legislative che favorivano l’indisponibilità delle banche e delle finanziarie a rinegoziare i mutui, misure che se fossero state prese quando vennero proposte nel lontano mese di settembre del 2007 avrebbero consentito a oltre due milioni di americani di non perdere la loro casa, una soluzione resa impossibile da quell’Hank Paulson che non ha mai nascosto di stare pervicacemente dalla parte di Wall Street, per lui molto, ma molto più importante delle tante Main Street presenti nella totalità delle città statunitensi!
La scoperta della nuova frode bancaria da parte della Securities and Exchange Commission ha determinato la formazione di lunghe code agli sportelli della filiale di Nassau, Bahamas, della Stanford International Bank, mentre si è saputo che R. Allen Stanford non sarebbe riuscito a prendere il volo per Nassau solo perché il proprietario dell’aereo privato che voleva prendere in affitto avrebbe rifiutato la carta di credito sventolata sotto il suo naso dal miliardario texano che risulta essere cittadino delle isole note come paradiso fiscale, oltre che cittadino statunitense.
Fa riflettere il fatto che, nonostante l’annuncio di ulteriori interventi governativi per poco meno di 1.100 miliardi di dollari, i tre principali indici azionari statunitensi non sono riusciti ieri a recuperare le forti perdite registrate martedì, anche se non va sottovalutato il forte impatto psicologico derivante da episodi, come quelli di Madoff e Stanford, che minano alla base la già scarsa fiducia nutrita nei protagonisti di un mercato finanziario globale oramai trasformatosi un immenso casinò a cielo aperto che non ha nulla da invidiare alle scintillanti case da gioco di Las Vegas, del genere di quelle che hanno portato alla bancarotta il miliardario Donald Trump, un tempo noto per le vicende matrimoniali e per i suoi famosi grattacieli.
Fanno impressione i piani di ristrutturazione e di rilancio presentati dalla General Motors e dalla Chrysler appena in tempo rispetto alla scadenza loro imposto dal Governo, una sensazione che non è dettata tanto dalle cifre richieste dalle due entità tecnicamente fallite, 16,6 e 5 miliardi di dollari, rispettivamente, quanto per le annunciate chiusure di stabilimenti e per il previsto taglio, per la sola General Motors, di poco meno di 50 mila dipendenti, una parte dei quali sono lavoratori americani attualmente occupati nei quindici stabilimenti per i quali è prevista la chiusura o la cessione, un approccio chiaramente ispirato al downsizing che non credo proprio farà felice Obama.
Continuo a ritenere che gli Stati Uniti d’America stiano facendo davvero tutto il possibile per porre delle dighe più o meno solide di fronte ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo, anche alla luce del fatto che hanno impegnato poco meno di diecimila miliardi di dollari a tale scopo, seppure sono certamente fondate le critiche mosse all’efficacia della prima parte di questa montagna di soldi che è stata già spesa, in particolare di quelle migliaia di miliardi di cui hanno beneficiato le prime sei grandi banche sopravvissute, senza che da parte delle stesse vi fossero impegni esigibili in merito alla non secondaria questione del mantenimento di un adeguato flusso di finanziamenti alle famiglie e alle imprese.
Mentre restiamo in trepida attesa rispetto alle caratteristiche innovative promesse dai componenti del Dream Team obamiano, quello che è certo e che in Europa regna nel frattempo un vero e proprio stato confusionale che sembra pervicacemente impedire ai leaders politici e ai banchieri centrali di individuare uno straccio di piano comune per impedire il collasso delle grandi banche europee e la chiusura a catena degli stabilimenti industriali, mentre stendo un pietoso velo di silenzio sulla performance delle autorità giapponesi, di quelle russe e cinesi, per non parlare poi dei paesi emergenti europei e di quelli asiatici per i quali non esiste alcuna rete di protezione.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .