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Uno dei libri più belli e più animati da una grande passione civile che mi sia capitato di leggere è certamente The Economic Consequences of the Peace scritto da John Maynard Keynes nel 1919, all’indomani del suo polemico abbandono dei lavori della Conferenza di Pace di Versailles che poneva fine a quella mattanza di massa che era stato il primo conflitto mondiale, un testo da lui scritto per protestare contro le assurde pretese degli alleati nei confronti della Germania sconfitta, pretese che contrastavano nettamente con gli impegni previsti nell’atto di resa e che crearono le condizioni più adatte all’avvento del nazionalsocialismo dopo il disastro iperinflattivo che aveva caratterizzato la Repubblica di Weimar.
Pur avendolo eletto a mio punto di riferimento principale per orientarmi tra gli alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo, confesso che credo che nessun economista sia stato tirato tanto spesso in ballo attribuendogli, nella maggior parte dei casi, idee che lo stesso Keynes avrebbe giudicato quanto meno alquanto sballate e, soprattutto e cosa per lui molto più importante, molto poco basate sulla logica formale, uno strumento di cui era talmente dotato da far dire a Bertrand Russell che era molto impegnativo discutere con lui.
Nell’accingermi a scrivere una serie di puntate del Diario della crisi finanziaria espressamente dedicate alle conseguenze economiche di Silvio Berlusconi, avrò come riferimento proprio quella passione civile che caratterizzò il mai troppo compianto economista inglese, non solo nella redazione dell’opera citata di sopra, ma anche nel secondo libro dedicato al trattato di pace, in Can George Lloyd Do It? e in numerosi articoli e discorsi raccolti nelle Collected Writings of John Maynard Keynes, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che l’argomento che ho scelto difficilmente susciterà le reazioni provocate da opere che intervenivano su scelte di portata storica e che divisero profondamente l’opinione pubblica mondiale.
Come è a tutti noto, dopo un passato imprenditoriale di sicuro successo, seppur caratterizzato da alcune ombre legate agli esordi, Silvio Berlusconi decise di impegnarsi in prima persona nell’agone politico in una fase in cui i partiti storici della cosiddetta prima repubblica andavano letteralmente in frantumi sotto l’onda di sdegno popolare suscitato dalle inchieste del pool di Mani Pulite, un fenomeno di rigetto che travolse i cinque partiti di maggioranza, incrinò l’immagine dell’allora Partito Comunista Italiano, mentre lasciò più o meno intatta la forza dell’allora Movimento Sociale Italiano e della Lega Nord.
Utilizzando in modo molto abile gli strumenti della comunicazione televisiva, anche ma non solo a partire dalle tre reti di cui disponeva e dispone, la forza della rete dei venditori degli spazi pubblicitari di Mediaste, slogan semplici ma efficaci e un jingle molto accattivante, conquistò nel 1994 la sua prima vittoria elettorale e diede vita a un governo che durò soltanto pochi mesi, rifacendosi poi nelle elezioni del 2001 e in quelle del 2008, entrambe vinte con largo margine, mentre venne sconfitto da Romano Prodi sia nel 1996 che nel 2006.
Come afferma tra le righe l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, al di là di un modo molto naif di intendere la politica, caratteristica peraltro molto più apparente che reale, il politico Berlusconi proviene da uno schieramento di sicura e provata fede atlantica, di indiscusso anticomunismo, uno schieramento caratterizzato dal proliferare di organizzazioni più o meno segrete come gladio, la loggia massonica Colosseum e la successiva loggia Propaganda 2, della quale Berlusconi fece parte al pari di numerosi esponenti del partito da lui fondato quando sembrava ineluttabile la vittoria delle sinistre.
Lo scontro tra questo schieramento atlantico e il molto composito fronte che potremmo, in estrema sintesi e con qualche forzatura, definire europeista dura oramai da sessanta anni e ha condizionato in misura fortissima lo sviluppo dell’economia italiana, soprattutto per quanto riguarda la finanza, la grande impresa privata e le cosiddette partecipazioni statali, mentre scarso, se non nullo, interesse veniva dedicato alle imprese di medie, piccole e piccolissime dimensioni che costituiscono il carattere distintivo dell’economia del nostro paese, forse l’unico al mondo ad avere un esercito di milioni di imprenditori su una popolazione che non arriva a sessanta milioni di abitanti, per non parlare di quello sterminato numero di partite IVA che sono più assimilabili agli imprenditori che ai lavoratori dipendenti.
Sommati assieme, imprenditori e lavoratori autonomi presentano dimensioni non troppo lontane da quella rappresentata dai lavoratori dipendenti, una caratteristica forse unica tra i paesi europei, ma che assume caratteristiche ancora più particolari ove si tenga conto del fatto che molti lavoratori dipendenti svolgono, in modo palese o meno, attività di carattere imprenditoriale o autonomo sia in agricoltura che in altri settori dell’attività produttiva, una circostanza che spiega l’estrema labilità dei confini tra le classi sociali in Italia e che crea una base sociale molto più ampia di quanto emerge dai dati ufficiali per il messaggio politico berlusconiano, un messaggio molto in sintonia con il sentire comune di questo esercito di imprenditori un po’ “fai da te”.
Mi scuso per la lunga premessa, ma credo proprio che questa stratificazione sociale molto poco ‘europea’ della società italiana costituisca una delle ragioni meno esplorate del successo della solo apparentemente semplicistica formula berlusconiana che vede uno Stato poco o punto invadente, soprattutto sul piano di quelle pretese fiscali che fanno venire l’orticaria la popolo delle partite IVA e a quei piccoli imprenditori che non possono permettersi costosi fiscalisti, quali, a solo titolo di esempio, il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti. (il seguito a domani)
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .
Uno dei libri più belli e più animati da una grande passione civile che mi sia capitato di leggere è certamente The Economic Consequences of the Peace scritto da John Maynard Keynes nel 1919, all’indomani del suo polemico abbandono dei lavori della Conferenza di Pace di Versailles che poneva fine a quella mattanza di massa che era stato il primo conflitto mondiale, un testo da lui scritto per protestare contro le assurde pretese degli alleati nei confronti della Germania sconfitta, pretese che contrastavano nettamente con gli impegni previsti nell’atto di resa e che crearono le condizioni più adatte all’avvento del nazionalsocialismo dopo il disastro iperinflattivo che aveva caratterizzato la Repubblica di Weimar.
Pur avendolo eletto a mio punto di riferimento principale per orientarmi tra gli alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo, confesso che credo che nessun economista sia stato tirato tanto spesso in ballo attribuendogli, nella maggior parte dei casi, idee che lo stesso Keynes avrebbe giudicato quanto meno alquanto sballate e, soprattutto e cosa per lui molto più importante, molto poco basate sulla logica formale, uno strumento di cui era talmente dotato da far dire a Bertrand Russell che era molto impegnativo discutere con lui.
Nell’accingermi a scrivere una serie di puntate del Diario della crisi finanziaria espressamente dedicate alle conseguenze economiche di Silvio Berlusconi, avrò come riferimento proprio quella passione civile che caratterizzò il mai troppo compianto economista inglese, non solo nella redazione dell’opera citata di sopra, ma anche nel secondo libro dedicato al trattato di pace, in Can George Lloyd Do It? e in numerosi articoli e discorsi raccolti nelle Collected Writings of John Maynard Keynes, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che l’argomento che ho scelto difficilmente susciterà le reazioni provocate da opere che intervenivano su scelte di portata storica e che divisero profondamente l’opinione pubblica mondiale.
Come è a tutti noto, dopo un passato imprenditoriale di sicuro successo, seppur caratterizzato da alcune ombre legate agli esordi, Silvio Berlusconi decise di impegnarsi in prima persona nell’agone politico in una fase in cui i partiti storici della cosiddetta prima repubblica andavano letteralmente in frantumi sotto l’onda di sdegno popolare suscitato dalle inchieste del pool di Mani Pulite, un fenomeno di rigetto che travolse i cinque partiti di maggioranza, incrinò l’immagine dell’allora Partito Comunista Italiano, mentre lasciò più o meno intatta la forza dell’allora Movimento Sociale Italiano e della Lega Nord.
Utilizzando in modo molto abile gli strumenti della comunicazione televisiva, anche ma non solo a partire dalle tre reti di cui disponeva e dispone, la forza della rete dei venditori degli spazi pubblicitari di Mediaste, slogan semplici ma efficaci e un jingle molto accattivante, conquistò nel 1994 la sua prima vittoria elettorale e diede vita a un governo che durò soltanto pochi mesi, rifacendosi poi nelle elezioni del 2001 e in quelle del 2008, entrambe vinte con largo margine, mentre venne sconfitto da Romano Prodi sia nel 1996 che nel 2006.
Come afferma tra le righe l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, al di là di un modo molto naif di intendere la politica, caratteristica peraltro molto più apparente che reale, il politico Berlusconi proviene da uno schieramento di sicura e provata fede atlantica, di indiscusso anticomunismo, uno schieramento caratterizzato dal proliferare di organizzazioni più o meno segrete come gladio, la loggia massonica Colosseum e la successiva loggia Propaganda 2, della quale Berlusconi fece parte al pari di numerosi esponenti del partito da lui fondato quando sembrava ineluttabile la vittoria delle sinistre.
Lo scontro tra questo schieramento atlantico e il molto composito fronte che potremmo, in estrema sintesi e con qualche forzatura, definire europeista dura oramai da sessanta anni e ha condizionato in misura fortissima lo sviluppo dell’economia italiana, soprattutto per quanto riguarda la finanza, la grande impresa privata e le cosiddette partecipazioni statali, mentre scarso, se non nullo, interesse veniva dedicato alle imprese di medie, piccole e piccolissime dimensioni che costituiscono il carattere distintivo dell’economia del nostro paese, forse l’unico al mondo ad avere un esercito di milioni di imprenditori su una popolazione che non arriva a sessanta milioni di abitanti, per non parlare di quello sterminato numero di partite IVA che sono più assimilabili agli imprenditori che ai lavoratori dipendenti.
Sommati assieme, imprenditori e lavoratori autonomi presentano dimensioni non troppo lontane da quella rappresentata dai lavoratori dipendenti, una caratteristica forse unica tra i paesi europei, ma che assume caratteristiche ancora più particolari ove si tenga conto del fatto che molti lavoratori dipendenti svolgono, in modo palese o meno, attività di carattere imprenditoriale o autonomo sia in agricoltura che in altri settori dell’attività produttiva, una circostanza che spiega l’estrema labilità dei confini tra le classi sociali in Italia e che crea una base sociale molto più ampia di quanto emerge dai dati ufficiali per il messaggio politico berlusconiano, un messaggio molto in sintonia con il sentire comune di questo esercito di imprenditori un po’ “fai da te”.
Mi scuso per la lunga premessa, ma credo proprio che questa stratificazione sociale molto poco ‘europea’ della società italiana costituisca una delle ragioni meno esplorate del successo della solo apparentemente semplicistica formula berlusconiana che vede uno Stato poco o punto invadente, soprattutto sul piano di quelle pretese fiscali che fanno venire l’orticaria la popolo delle partite IVA e a quei piccoli imprenditori che non possono permettersi costosi fiscalisti, quali, a solo titolo di esempio, il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti. (il seguito a domani)
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .